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81. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: un esercizio di bulimia cinefila

La partecipazione a eventi come l’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia espone inevitabilmente a un esercizio di bulimia cinefila: ossia un esercizio tale da comportare anche otto o più ore passate a vedere film diversi nel corso della stessa giornata. Le conseguenze possono essere di due tipi. O un’anestetizzazione che porta a confondere le svariate pellicole, in una sorta di patchwork fatto di immagini, colori, trame e personaggi più o meno sovrapponibili. Oppure tutto al contrario un affaticamento nervoso che facilita la polarizzazione dell’entusiasmo o viceversa dell’antipatia, dell’adesione o della repulsione. Ma l’autentico cinefilo prima o poi non rinuncia al momento della verità, quello in cui si chiede cosa abbia veramente visto e quindi che giudizio ci sia da trarne. Di qui seguito dunque alcuni esempi dei risultati ai quali il sottoscritto è giunto.

“Campo di battaglia”, regia di Gianni Amelio, 103 min., Italia, Produzione: Kavac Film (Simone Gattoni, Marco Bellocchio), Ibc Movie (Beppe Caschetto), One Art Film (Bruno Benetti) con Rai Cinema

Dico subito di alcuni dei miei preferiti visti nel corso di questa Mostra. Anzitutto due italiani, di tema storico: Leopardi, il poeta dell’infinito di Sergio Rubini e Campo di battaglia di Gianni Amelio. Del primo, vero colossal destinato a diventare serie televisiva, stupisce un po’ il fatto che abbia seguito il film sullo stesso identico tema diretto da Martone solo dieci anni fa, ma tanto meglio: la comparazione non potrà che giovare a simili opere, entrambe originali e stimolanti nonché proponenti angolature sensibilmente diverse su questo poeta mai abbastanza celebrato. Il secondo film, liberamente ispirato al romanzo La Sfida di Carlo Patriarca, annovera tra i suoi produttori anche Marco Bellocchio e propone un quadro tanto convincente quanto sconvolgente della situazione di un ospedale militare durante la prima guerra mondiale e la diffusione della devastante epidemia della spagnola. Le enormi masse di cadaveri anonimi, le indicibili sofferenze dei feriti, l’imperativo “della guerra come dovere” ripetuto con modalità ossessiva eppur anche la disperata volontà di sottrarvisi: tali e tante sono le suggestioni offerte da questo film che invitano a meditare sulle manie guerrafondaie sempre più presenti nel nostro tempo. Molto apprezzabile la recitazione di Alessando Borghi nei panni del protagonista.

“Quite life”, regia di Alexandros Avranas, 99 min., Francia, Germania, Svezia, Grecia, Estonia, Finlandia, Produzione: Les films du Worso (Sylvie Pialat, Alejandro Arenas Azorin, Benoît Quainon), Elle Driver (Adeline Fontan Tessaur), Fox in the Snow Films (Olivier Guerpillon, Frida Hallberg), Senator Film Produktion (Reik Möller, Ulf Israel), Amrion (Riina Sildos), Playground (Kostas Sfakianakis), Asterisk (Vicky Miha), Making Movies (Kaarle Aho)

Da segnalare sono anche i due film francesi Quite life di Alexandros Avranas e Leures enfants, après eux di Ludovic e Zorau Boukherma, entrambi concernenti i modi di porsi degli occidentali nei confronti di popolazioni d’origine straniera. Al centro del primo film sono poste le vicissitudini di una famiglia fuggita dalla Russia e richiedente asilo in Svezia[1]. Un caso tra i tanti realmente esistenti – come spiegato nei titoli di coda -, nei quali i bambini d’origine straniera, perdendo assieme ai genitori ogni speranza nel futuro, cadono in un vero e proprio stato di coma non sempre reversibile. Una storia “vera”, dunque, ma rappresentata con grande pathos e persino punte di ironia dall’équipe diretta da Alexandros Avranas. Quanto poi a Leures enfants, après eux, è tratto dall’omonimo romanzo di Nicolas Mathieu, premio Goncourt, ambientato in una valle della Francia orientale, già zona siderurgica da tempo dismessa, dove giovani autoctoni hanno relazioni anche profondamente ostili con figli di immigrati oramai sedentarizzati, in un coacervo di drammi personali e collettivi dall’esito incerto. Il tutto narrato in modo asciutto e coinvolgente.

“The New Year that Never Came”, regia di Bogdan Muresanu, 138 min., Romania, Serbia, Produzione: Kinotopia (Bogdan Mureșanu), All Inclusive Films (Vanja Kovacevic)

Particolarmente ben congegnata e fino anche divertente è poi la trama del film rumeno The New Year that Never Came di Bogdan Muresanu. Qui a essere evocato è un coacervo di svariate vicende personali che si concludono con il famoso comizio a Bucarest del 22 dicembre 1989, quando prese avvio il crollo del regime di Nicolae Ceaușescu Per i temi, ma anche per lo stile narrativo, Muresanu pare rifarsi a quel grande maestro del cinema polacco Andzej Wajda, regista degli indimenticabili L’uomo di marmo e L’uomo di ferro, nonché testimone di Solidarnosc e del crollo del regime filosovietico di Jaruleski. Stupisce allora che il regista di The New Year that Never Came, nonostante lo humor e l’intelligenza così dimostrati e nonostante i pur impliciti richiami all’insegnamento di Wajda, si ammetta incapace di capire come mai anche tra i rumeni d’oggi non tutto del passato socialista paia condannabile[2].

“Trois amies”, regia di Emmanuel Mouret, 118 min., Francia, Produzione: Moby Dick Films (Frédéric Niedermayer)

Altro film dove l’impronta di un predecessore risulta assai riconoscibile è Trois amies del regista Emmanuel Mouret. Un intreccio di vicende, confessioni, equivoci e avventure sentimentali di tre amiche, appunto, che non può non ricordare il genere di film di cui Eric Rohmer è stato maestro. Chiaro intento di Mouret è indurre il pubblico a identificarsi con figure il più possibile prossime alla media di quelle più o meno benestanti e stanziali in una città europea come Lione. Risorsa fondamentale per vivacizzare la trama è di farle prendere una piega sorprendente proprio quando il suo sviluppo pare più prevedibile. Un artificio un po’ di maniera che fa evitare il rischio di banalità a volte corso da questo film, comunque godibile, ma non certo volto a perlustrare gli arcani delle passioni amorose, come si può sentir dire.

“To Kill a Mongolian Horse”, regia di Xiaoxuan Jiang, 98 min., Malaysia, Stati Uniti, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone

Un discorso a parte merita invece To Kill a Mongolian Horse, opera prima della mongola Xiaoxuan Jiang, dove si racconta delle sempre più tristi e sofferenti condizioni di vita cui sono costretti i mandriani delle sterminate praterie della Mongolia interna cinese. Una fotografia superba accompagna la narrazione d’impronta quasi documentaristica, ma a tratti interrotta da sorprendenti sequenze tra l’onirico e il simbolico, mentre la recitazione quanto mai scarna esalta la denuncia della precarietà esistenziale cui è ridotto questo paese. L’aggressione da esso subita a causa condizioni climatiche sempre più avverse, ma anche in seguito a trasformazioni del territorio dettate da operazioni speculative pare lasciare il turismo come unica umiliante opportunità di sopravvivenza per i residenti. Berci su, fino alla sbornia più estrema, è l’ultima sconfortante, quanto ironica parola di questa apprezzabile opera.

“Why war”, regia di Amos Gitai, 87 min., Francia, Svizzera, Produzione: Agav Films (Amos Gitai, Laurent Truchot), Agav Hafakot (Shuki Friedman), Elefant Films (Alexandre Iordachescu)

La rassegna potrebbe essere ovviamente ben più estesa, ma questo è quanto più ha colpito in senso positivo chi scrive. Una nota di demerito non può, però, mancare. Senza parlare del pretenzioso, confuso, oltre che equivoco da un punto di vista politico, Why war di Amos Gitai, un cenno va fatto a Wolfs di Jon Watts, puro e semplice “giochino” dei due cosiddetti re di Hollywood, Brad Pitt e George Clooney. Due attori per altro a volte impegnati in più degne cause – basti pensare alla recitazione del primo nel notevole War Machine (2017) di David Michod e la regia oltre che la recitazione del secondo in Le idi di Marzo (2011) – ma questa volta veramente riuniti solo per futili motivi. Si può anche dire trattarsi di una di quelle solite minestre scadenti preparate e servite in tutta fretta dalla massima industria del cinema esistente al mondo, ma in tempi di guerra come i nostri è davvero fastidioso vedere parecchie cose che questo film dà per scontate. Ad esempio fare dello spirito attorniati da un mare di cadaveri ancora fumanti, ma esibiti e trattati come irrilevanti in quanto appartenenti a bande di “albanesi” e “croati”, va da sé supercriminali. Oppure che l’essere killer di mestiere non escluda il fatto di presentarsi come dei gran simpaticoni. Ora è il momento, però, di lasciare la scena alla domanda che sempre più pressante aleggia su questa 81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica verso le sue ultime battute: chi vincerà?

[1]. In quella Svezia di cui troppo spesso si dimenticano le atroci politiche eugenetiche basate sulla presunta scienza della biologia razziale e adottate in questo paese per addirittura più di quarant’anni dal 1934 al 1976. https://it.euronews.com/2023/06/08/1934-1976-eugenetica-in-svezia-oltre-20mila-sterilizzazioni-forzate

[2] https://variety.com/2024/film/global/in-the-new-year-that-never-came-bogdan-muresanu-trailer-1236121362/

Info:

https://www.labiennale.org/it/cinema/2024

Cover image: President Pietrangelo Buttafuoco (Ph. credits La Biennale di Venezia – Foto ASAC)


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