C’è un’urgenza nel voler generare cambiamento, fra il tintinnio dei bicchieri nei vernissage, che oscilla, però, in questa strana e tediosa passività speranzosa, alle volte illusoria, di aspettare che quest’ultimo si generi autonomamente, ma continuando a sottolinearne l’importanza. Ci si adagia sul sentimento del politicamente corretto, quasi con veemenza, in nome di un presunto riconoscimento rivolto a un certo ceto sociale, lo stesso che non solo ne ha determinato la genesi, memore di una gloria di conquiste politico-culturali passate, ma che ha anche permesso, di contro, la semplificazione del linguaggio critico, girandogli le spalle, come quella famosa e tanto cara vecchia signora, tanto abusata, ormai a lui scomoda.
Certo è che il cambiamento, quello con la C maiuscola, avviene solo se l’ideazione si trasforma in azione. Serve sempre, però, quella figura del “capro espiatorio” che alza la voce e che non ha niente da perdere: l’eroe che si immola per il bene comune. Ci si nasconde dietro la scomparsa della critica, senza, però, specificare che forse questa presunta “crisi” possa essere determinata da una manciata di variabili: una di queste, ad esempio, è la perdita del gusto esteticamente raffinato, fatto da quell’alta borghesia investita dal lume del mecenatismo, proprietaria di organizzazioni profit o aziende di alto profilo, che ha assecondato – alle volte anche finanziato – la diffusione del Kitsch, cavalcando l’onda economico-industriale di quegli specifici tempi. Una seconda, a mio avviso più importante, è che la critica non è solamente qualcosa che si aggrappa ai favoritismi eccessivi, alle logiche pompose e quasi divinizzate di enunciati redazionali ampollosamente pletorici, come ad esempio “quest’opera è estremamente contemporanea…”, ma un atto che rivendica quella preposizione causale che, da quella sterile annunciazione, considera le stesse numerose variabili e i possibili contesti in cui si inserisce. Quel quid che determina il “perché” quell’opera sia estremamente contemporanea, che troppo spesso viene confuso con quel “cosa” o quel “come”, inevitabilmente acritico, descrittivo.
E qui si insidia Contestabile, collettiva inaugurata lo scorso 7 giugno al Contemporary Cluster, la cui direzione artistica è affidata a Giacomo Guidi nella magnificenza monumentale di Palazzo Brancaccio a Roma. Osservandone silenziosamente, da lontano, la struttura, Contestabile è già di per sé un cambiamento contestualizzato. Da un lato, nella scelta di inserire non più un solo big nelle vesti di curatore unico, ma affidando la progettazione a tre emergenti (Davide Silvioli, Niccolò Giacomazzi, Davide Maria Mannocchi) insieme a nove artisti (Alessia Armeni, Genuardi/Ruta, Mattia Sugamiele, Monica Mazzone, Dario Carratta, Flavio Orlando, Wang Yuxiang, Valerio D’Angelo e Davide Serpetti), dando loro il compito di creare una narrazione che possa accettare la sua ipotetica contestabilità.
Partirei da una breve riflessione di Mannocchi, scritta nel testo curatoriale della terza e ultima sala, a lui affidata e intitolata Post Scriptum: «Criticare è l’atto primo del medico che cerca cura per il paziente afflitto. Per analogia, lo stesso vale per la storia. Quando una certa epoca è “in crisi”, significa che è impegnata, forse ancora inconsapevolmente, a emanciparsi da sé stessa». Ora, il lettore converrà con me che, leggendo queste poche righe, non è tanto la critica a esser scomparsa, come dimostra la sua penna, ma che, forse, è cambiato solo il mezzo della sua diffusione, e quindi l’attenzione e la cura che vi si ripone. Un semplice foglio di sala, destinato forse a essere letto da pochi e che tediosamente riponiamo in tasca piegato, contiene una profonda riflessione. Il critico dunque è un osservatore attento e scrupoloso della storia, mai presuntuoso ma risoluto, e chi sostiene che la sua gloria derivi dal suo giudizio estetico, è lo stesso che dimentica quel foglio in tasca. L’accostamento tra le cinque opere pittoriche di Davide Serpetti e le superfici specchianti di Valerio D’Angelo invita la figurazione a riflettersi e a deformarsi, a confrontarsi con il proprio doppio, un Narciso (2023) tramutato in specchio (Valerio D’Angelo) e adulatore della sua ombra immortale, sebbene sempre in allerta e paranoico nello scovare e competere con quella altrui. È una figurazione, quella di Serpetti, che sottolinea la dedizione nei confronti dello studio, creatore di trasformazione e portavoce di una temporalità plasmatica portata sulle spalle come da un Atlante in bilico tra un’iconografia classica e un dismorfismo corporeo profondamente contemporaneo e proprio dell’era post-umana. Se nella serie i Vinti (2022-2023), precedentemente dipinta da Serpetti per la sua mostra al Santuario di Ercole Vincitore di Tivoli, la figurazione, sfocata e congelata nella tela, sembra rimanere folgorata e priva d’iride, quasi accecata dalla “magia del fare” ma impossibilitata nel diffonderlo, in Sculpture of anything goes #1 e #2 (2023), presenti in mostra, essa apre gli occhi, consapevole della sua trasformazione, e si rivolge in avanti. Lo sguardo è l’atto cosciente dell’imminente mutamento, lo stesso che nel Lucifero (1890) di Franz von Stuck insiste, contro quel conservatorismo di quell’arte ufficiale, inquietante su quello di chi lo osserva, attraversato e filtrato dalle superfici riflessive e policrome di D’Angelo.
L’oscillazione polimorfica di una figurazione ibrida si concretizza sintetizzandosi anche nelle forme geometriche delle opere di Monica Mazzone presenti in Permeabile, prima sala curata da Silvioli. Una Geometria Emotiva e spiritualmente simbolica per la Mazzone (Decostruzione di un inizio, Un attimo prima un attimo dopo, 2022), la quale indaga come permeare la bidimensionalità dell’immagine, senza lasciare indietro il fare scultoreo. La geometria, alla ricerca di una purezza essenziale, abbandona la rigidità morfologico-formale allungandosi e deformandosi. Le opere di Mazzone alternano così la compresenza di una frammentarietà lineare e rigida e di una fluidità curvilinea. A rimarcare tale riflessione è lo stesso Silvioli, sostenendo che tale permeabilità qualifica «l’opera d’arte come sintesi di queste due variabili sì in contrasto ma non in contraddizione, che, perciò, giungono a contaminarsi, persino a confliggere, per poi fondersi e mai per annullarsi». Se per Mazzone la contaminazione fra pittura e scultura altera la percezione spazio-fisica della sala, per Alessia Armeni, nel dittico 24 h_painting_rome_12_04_2021, la geometria regolare spettrometrica ne scandisce la temporalità. Ventiquattro distese verticali di policromie calde rappresentano un campionamento della luminosità atmosferica che si proietta su una parete nell’arco di una giornata vissuta dall’artista in uno studio romano.
«Analizzando i temi di una modernità contraddistinta da un irrefrenabile dualismo di elementi antitetici e divergenti, le opere e, di conseguenza, un’esposizione diventano uno strumento necessario per aggregare la moltitudine al centro del dibattito». Quanto detto da Niccolò Giacomazzi, nel testo critico della sala intitolata La distanza tra pubblico e privato è di 37 cm sembra applicarsi perfettamente alle due tele che si fronteggiano: Attraverso il buco (2023) di Flavio Orlando e La notte degli oggetti desiderabili (2023) di Dario Carratta. I 37 centimetri che separano due dimensioni antitetiche, o percepite come tali, sono una distanza percorribile dagli artisti, che cercano di collocarsi al punto d’’incontro. Crisi significa apertura, possibilismo e aggregazione, appunto; nella stanza di Giacomazzi convivono, o forse collidono, l’apertura del privato anche più intimo, un atto di deiezione esplicitato, e un pubblico che chiama a raccolta l’inconscio collettivo. La crisi è apertura, o ancora il suo contrario, perché i “cento miliardi di soli” di Wang Yuxiang sperimentano l’incomunicabilità delle finestre chiuse.
Info:
Contestabile
Permeabile
(Alessia Armeni, Genuardi/Ruta, Mattia Sugamiele, Monica Mazzone)
a cura di Davide Silvioli
La distanza tra pubblico e privato è di 37 cm
(Dario Carratta, Flavio Orlando, Wang Yuxiang)
a cura di Niccolò Giacomazzi
Post Scriptum
(Valerio D’Angelo, Davide Serpetti)
a cura di Davide Maria Mannocchi
Contemporary Cluster
Palazzo Brancaccio, Via Merulana, 248, Roma
07.06. – 12.07.2023
https://www.contemporarycluster.com/contact-8
e-mail: https://www.contemporarycluster.com/
Laureata in Scienze dell’Architettura alla Sapienza di Roma, con diploma di master in Arte contemporanea e Management presso la Luiss Business School, attualmente lavora come stagista e project manager presso Untitled Association. Diplomata in Fotografia e Critica d’Arte a Bologna, attualmente porta avanti i suoi progetti personali ed è parte del team del progetto culturale Forme Uniche.
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