Sorge alla mente, magari plagiata dalla recente scomparsa di Bruno Ganz (Artista maiuscolo), la scena del noto capolavoro di Herzog, Nosferatu – Il principe della notte, dell’ultima cena degli appestati, lenta, straziante e dolcissima nella battuta invitante del commensale alla protagonista: «Seien Sie unser Gast. Wir alle haben die Pest. Also lasst uns jeden genießen Tag, der bleibt»1. La meschinità di quest’affresco pseudo-fiammingo, tra libagioni e topi bianchi, condensa gran parte della poetica narrativa del regista, interessato non all’atto compiuto nè tantomeno alla Bellezza ma alla tensione precedente la fine, al preludio che già diviene, annunciandola, la Morte.
Laghi neri d’inchiostro si sono formati sulla stesura bibliografica a proposito della Morte, la prima umana coscienza, tema incarnato dall’Arte stessa in risposta alla caducità del tempo. Tuttavia, l’attualità vara su ben altre implicazioni dell’argomento spostandolo da oggetto di pensiero a mero fatto fenomenologico (se non giornalistico), privandone tutta la riflessione temporale e metafisica.
Ecco perchè Della morte e del morire proposta dalla Tenuta dello Scompiglio nei pressi di Vorno (Capannori, Lucca) merita attenzione e approfondimento filosofico. Una sequenza di performance, installazioni, mostre, concerti e iniziative di varia natura ammanteranno per tutto il 2019 il fitto calendario dell’Associazione Culturale Dello Scompiglio, diretta dalla regista e artista Cecilia Bertoni, incentrandosi sui tre caratteri semantici della morte, socio-politico, ideologico e celebrativo. La vocazione teatrale del contesto e gli spazi di ampio respiro permettono sicuramente di costruire impianti scenografici di forte impatto visivo, arma dal doppio taglio se si pone l’accento sull’evidente aspetto naturalistico del contesto, “matrigno” nell’offerta estetica, e suadente nel dettare agli artisti forme già visitate argomentando il Sonno Eterno.
Riprendendo la citazione herzoghiana, la Morte è l’oscillazione costante e peritura tra la Bellezza e la certezza, non può tendere eccessivamente ad una o altra per la sua possanza temporale, esiste solo in funzione dell’attimo. Se dunque l’opera La vulnerabilità delle cose preziose, esito della residenza condotta da Sabrina Mezzaqui presso la Tenuta, sviluppa precetti ben inerenti alla materia discussa, l’aspetto formale è già “scaduto” non riflette sulla morte ma sulla temporalità (non necessariamente sinonimi), lasciando distante il fruitore proprio per la tempistica sbilanciata, sebbene peculiare per una residenza. Cautamente, punta alla cronaca l’installazione I Cannibali di Titta Cosetta Raccagni, sulla sospensione costante e violenta della condizione del migrante e l’idea di rinascita consapevole, trovando un equilibrio pur con una nota da fumetto cyber-punk. Tra l’archetipo e la moda. Entrambe le opere sono terminate da poco, precisamente il 26 maggio e il 2 giugno, mentre maggior intervallo viene concesso alle opere di rilevante complessità fisica e di risorse, previste fino al 22 settembre.
Si tratta di Camera #5 di Cecilia Bertoni, il video-performance Riderless Horse di Avelino Sala e l’imponente site-specific Sanctum di Levi van Veluw. L’installazione della Bertoni, sonorizzata da Carl G. Beukman, vuole mettere in relazione gli opposti stati dell’esistenza giocando su contrasti percettivi, sia oculari (Bianco e Nero) sia spaziali (il corridoio e la stanza) sia sensoriali (tattili e psicologici) facendo immettere, attraverso un varco candido e immacolato, in un ambiente disseminato di sale e capeggiato da un telo-sudario cucito dall’artista con simboli alchemici. Il “tunnel di luce” ed il paesaggio lunare paiono inscenare la morte piuttosto che ponderarla, ma l’aggiunta dell’elemento individuale del lenzuolo funebre impone a tutto lo scenario una riflessione simile all’esperibilità della morte in Heidegger, dove l’ostensione ontologica della morte altrui serve a fuggire la propria.
Anche Avelino Sala offre un lavoro dai tratti esorcizzanti: la bella intuizione del cavallo legata alla morte (si pensi alla tradizione equestre e pittorica, da Dürer a Füssli a Cattelan) rischia di suscitare l’effetto opposto per la naturale reazione da “scampato pericolo” che si adotta in questi casi di dovuta trazione emotiva non corrisposta, scongiuri che sostituiscono la meditazione. Vero catalizzatore delle forze in campo è il progetto immersivo di Levi van Veluw, capace di racchiudere con precisa genuinità tutti gli aspetti linguistici perseguiti da Della morte e del morire. Sanctum, sotto la guida di Angel Moya Garcia, coniuga l’ambiguità sincronica delle forme rigorose e arcaiche con una spiccata forza nostalgica, fertile nei richiami cinematografici, creando la vibrazione giusta per decantare la Morte, un orologio al quarzo terribile e inevitabile. La trascendenza respirata è frutto dello schema adottato del tabernacolo classico, ma pure della costellazione simbolica che investe questo tempio artificiale, non lontano dall’idealismo semiologico di Baudrillard, dove i segni e gli oggetti dominano il soggetto.
Che cos’è la Morte, dunque? È la perdita di significato, non una fine biologica ma una dispersione di finalità, non sapere più distinguere la finzione dal reale. Concludendo proprio con il più sensibile promotore della patafisica: «Per primo, Benjamin (e più tardi McLuhan) coglie la tecnica non come “forza produttiva” (là dove si rinchiude l’analisi marxista) ma come medium, come forma e principio di tutta una nuova generazione del senso. … La tecnica come medium prevale non soltanto sul “messaggio” del prodotto (il suo valore d’uso) ma anche sulla forza-lavoro, della quale Marx vuol fare il messaggio rivoluzionario della produzione. Benjamin e McLuhan hanno visto più chiaro di Marx: hanno visto che il vero messaggio, il vero ultimatum era nella produzione stessa. E che la produzione non ha senso: la sua finalità sociale si perde nella serialità. I simulacri prevalgono sulla storia.»2
[1] Licenzioso ma interessante il doppiaggio della versione italiana: «è la nostra ultima cena; abbiamo tutti la peste e ogni giorno che ci rimane deve essere una festa».
[2] J. BAUDRILLARD, Il simulacro industriale, in “Lo scambio simbolico e la morte”, Milano, 2007, pp. 64-65.
Info:
Sabrina Mezzaqui, La vulnerabilità delle cose preziose, 2019
foto di Alice Mollica Courtesy l’artista e Associazione Culturale Dello Scompiglio
Titta Cosetta Raccagni, I cannibali, 2019 foto di Alice Mollica
Courtesy l’artista e Associazione Culturale Dello Scompiglio
Cecilia Bertoni, Camera #5, 2019
foto di Guido Mencari Courtesy l’artista e Associazione Culturale Dello Scompiglio
Avelino Sala, Riderless Horse, 2019
Performance e videoinstallazione Courtesy l’artista e Associazione Culturale Dello Scompiglio
Levi van Veluw, Sanctum, 2019
foto di Guido Mencari Courtesy l’artista e Associazione Culturale Dello Scompiglio
Luca Sposato nasce a Tirano, in Valtellina, nel febbraio del 1986, vive a Prato operando nella piana metropolitana fiorentina (Pistoia-Prato-Firenze). Storico dell’arte, critico e curatore d’arte e xilografo. Ha curato mostre in gallerie private, fiere internazionali ed installazioni pubbliche, sia in Italia che all’estero, fra cui una rassegna in palazzi storici di Pistoia e la scenografia di uno spettacolo musicale al Museo del Tessuto di Prato. Scrive per diverse riviste di settore sia cartacee che online. La sua ricerca critica partendo dalla grafica d’arte, parallelamente praticata, si concentra sul segno tracciato, fisico e semiotico, espandendo lo studio alla sincronizzazione temporale tra passato e presente, e coltivando la curatela come medium artistico.
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