La Collezione Enea Righi è un puro atto di amore verso l’arte e l’uomo, un’espressione di collezionismo autentico, non solo come raccolta di opere, ma come profonda indagine dell’uomo, dell’identità dell’Io, attraverso l’emozione, la relazione e lo scambio con l’altro. Il concetto di “doppio” boettiano, simboleggiato dall’impercettibile congiunzione “e”, attraversa l’intera esposizione, suggerendo una tensione tra opposti, strutturando una mostra con ritmo alternato, ma al contempo armonioso, di unione tra i dualismi espressi anche tramite il rapporto tra grandi installazioni e piccoli dettagli. Grazie alla curatela del collezionista Lorenzo Paini e del team di Museion, la collezione Enea Righi non è una mera esposizione di oggetti da osservare, ma un’occasione di introspezione e confronto con temi universali come il tempo, la memoria, il corpo e il rapporto con l’altro. Non solo un messaggio e un dialogo con lo spettatore, ma anche un invito al collezionismo odierno, un richiamo al personalismo della ricerca e un’espressione del sé attraverso la relazione.
La collezione si sviluppa su quattro piani del Museion di Bolzano, seguendo un percorso cadenzato tra pieni e vuoti, evidente sin dal piano terra, dove la presenza di imponenti installazioni come quelle di Parreno, Hirschhorn, Weiner o White, e di opere riflessive come quelle di Walid Raad e Jason Dodge, indagano il tema dell’esistenza che, con Roni Horn e Atiéna R. Kilfa, diventa coscienza di sé e del proprio corpo, culminando nell’installazione di Franz Erhard Walther, che costituisce un palco per la performance. Sulla scala di passaggio al secondo piano, incontriamo invece dei dettagli “fuoricampo”: i veri protagonisti della mostra. Da un lato Damning Evidence Illicit Behaviour Seemingly Insurmountable Great Sadness Terminated in Any Manner (2014) di Cally Spooner, un pannello a messaggio variabile in cui sono riportati ciclicamente i commenti di alcuni utenti sui social – voci inascoltate simbolo del presente e dell’assente, riportate in vita dalla performance cantata durante l’opening. Dall’altro, invece, il video In-out Antropofagia (1973/74) di Anna Maria Maiolino che, attraverso la censura dei movimenti della bocca di una figura ignota, anticipa il carattere più marcatamente socio-politico del piano successivo.
Qui entriamo in contatto con le sculture a pavimento di Lothar Baumgarten, affiancate dalle opere a parete di Ana Lupaş, Anna Maria Maiolino, Roman Ondak, Martha Rosler, Nairy Baghramian e Walid Raad: potenti indagini sul dualismo tra individuo e mondo, un rapporto di congiunzione tra macro e micro, tra la Storia e le storie personali. Walid Raad si impone con una serie fotografica sulla guerra civile in Libano. Un pattern sgranato, simile a coriandoli o fuochi d’artificio, oscura la visione dell’immagine e richiama il ricordo delle bombe che, da bambino, sua madre descriveva come fuochi d’artificio per proteggerlo dalla realtà. Memorie storiche e personali, tracce vivide e indimenticabili, emergono nell’installazione diffusa di Anna Boghiguian che, accompagnata in sottofondo dalla voce negata e “fuoricampo” dell’opera video Billy Sings Amazing Grace (2013) di Theaster Gates, ma anche da Ain’t Misbehavin’ (2022) di Sonia Boyce, riflette sullo schiavismo e sul canto popolare: protagonista presente e assente della storia, e in questo caso dell’esposizione.
I rimandi geo-politici sono evidenti anche nell’opera di Alighiero Boetti, punto di giunzione della collezione che spezza il ritmo denso e ci permette di entrare nel vivo della sezione libri d’artista collocata accanto. Insieme a Boetti, il ritmo viene alternato anche da alcuni ready-made e assemblaggi sparsi di Alex Ayed. Queste opere mantengono una connessione con contesti geografici specifici, ma al contempo giocano con lo spazio circostante, mimetizzandosi e costringendoci a tornare nella dimensione espositiva. Queste note impercettibili costellano anche il terzo piano, dove il dettaglio diventa protagonista. Una natura morta con conchiglie di Giorgio Morandi è affiancata da una piccola opera ancora una volta di Alex Ayed, mentre sulla parete di fianco troviamo una fotografia scattata da Luigi Ghirri di una delle conchiglie nello studio di Morandi, in coppia con un assemblage di Michael E. Smith. Essi sono circondati da due serie fotografiche di Cy Twombly, che immortalano dettagli marginali, solitamente nascosti all’esperienza visiva, resi qui protagonisti. Lo stesso accade con le scarpe di Narkevičius, o con le valigie di Zoe Leonard, ma anche tramite le finestre di Adam Gordon: dettagli privati al contempo comuni e quotidiani.
Proseguendo ci troviamo di fronte ad un’installazione di natura più intima realizzata da Tom Burr e associata a una foto intimistica di Nan Goldin. Si tratta di un ritratto di Susan Sontag, composto da oggetti dimenticati e trasformati in opera d’arte, un’opera che fa trasparire la dimensione privata e transitoria dell’Io, il passaggio e la traccia umana. Un tema che culmina nell’opera di Ser Serpas – artista che indaga lo spazio di transizione e porta al centro il marginale – in questo caso accostata a Dorothy Iannone, Sturtevant e Eric N. Mack. L’alternanza di ritmi ci conduce ad attraversare un corridoio di passaggio, dove il tempo si espande e diventa protagonista assoluto grazie al libro One Million Years (1999) di On Kawara accompagnato dal sonoro “fuoricampo” che scandisce il tempo anno per anno come i 101 ritratti di Hans-Peter Feldmann di amici e parenti disposti in ordine di età. Il senso di impotenza è mitigato dalla scultura Self-portrait as Emperor Hadrian Loving Antinous (2012) di Francesco Vezzoli, opera in cui la presenza fisica è protagonista – come nelle opere successive, corporee e tattily, di Dora Garcia, June Crespo e Ana Mendieta – così come lo scambio di sguardi – tema ripreso nelle opere di Roni Horn, Akram Zaatari, Mapplethorpe o Trisha Donnelly, accostate a quelle più concettuali di Stanley Brouwn, Hans Haacke, Zoe Leonard, Jason Dodge etc.
In questo frangente, la nostra è una presenza e assenza eterna, ma ciò che lasciamo sta nella giunzione, come sanciscono le porte di Roman Ondak e di Jef Greys, direzionate ovunque e da nessuna parte, eppure presenti. Questa presenza si manifesta nelle sculture di Neil Beloufa, Giulia Cenci, Sidsel Meineche Hansen, Shahryar Nashat, Berlinde De Bruyckere, Michael Dean, Yu Ji, Francisco Tropa e Clemens von Wedemeyer, collocate all’ultimo piano del museo sotto una luce flebile. Esse costituiscono una riflessione sul corpo – i residui e l’evoluzione dell’uomo – e fanno da co-protagoniste all’installazione centrale che si impone a noi, composta da travi e lucine, realizzata da Massimo Bartolini. Lo spegnersi e accendersi a ritmo alternato, indicano in via definitiva la nostra comparsa nello spazio-tempo, come un lampo nell’eterna ripetizione. Un fulmine a ciel sereno, come la risata diabolica e “fuoricampo” di De Dominicis che accompagna l’iscrizione D’io (1971).
Info:
AMONG THE INVISIBLE JOINS. Opere dalla Collezione Enea Righi
28/09/2024 – 02/03/2025
MUSEION, Bolzano
https://www.museion.it/it/
Matteo Giovanelli (Brescia, 1999) è uno storico dell’arte e giovane curatore. Dopo aver conseguito due lauree in Beni Culturali e Storia dell’Arte presso l’Università di Verona, ha sviluppato un profilo professionale dinamico. Ha collaborato con gallerie d’arte contemporanea, assistendo alla curatela di mostre e partecipando a prestigiosi progetti espositivi e fiere internazionali. Scrive recensioni e critiche d’arte, contribuendo a offrire uno sguardo critico e approfondito sul panorama dell’arte contemporanea.
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