Difficile definire cosa sia un’immagine oggi, nonostante le nostre menti e i nostri occhi ne siano saturi, e altrettanto complesso è distinguere quali misteriose regole di attrazione c’intersecano indissolubilmente a esse, al punto da influenzare capillarmente la nostra interpretazione della realtà e le nostre emozioni.
Le immagini (prodotte e governate da algoritmi, riciclate, manipolate, ibridate, archiviate e scartate) sono ormai parte integrante delle nostre esistenze e mediano costantemente il nostro rapporto con il reale, insinuandosi nelle più intime pieghe dell’inconscio. Anche le arti visive, per definizione fondate sulla creazione di immagini significanti atte a veicolare una visione del mondo irriducibile al linguaggio verbale, sono state ovviamente investite da questa massiva irruzione di materiale digitale dall’autorialità incerta e multipla, con cui hanno dovuto ingaggiare un’inevitabile competizione per mantenere alta la soglia dell’attenzione di un pubblico sempre più assuefatto all’imprevedibile. L’abitudine all’inaudito, sistematicamente sollecitato per suscitare una reazione – il cosiddetto engagement, di cui tanto si parla nel social media marketing – ha creato un paradossale corto circuito tra il desiderio di vedere immagini sempre più destabilizzanti per il loro carattere di eccezionalità e il progressivo distanziamento, indotto dai dispositivi digitali di fruizione delle immagini, con cui ci proteggiamo dall’effetto pur tanto agognato.
Porta a riflettere su queste tematiche l’iconica installazione di Andrea Nacciarriti a KAPPA-NÖUN, un intervento ambientale che trasforma lo spazio espositivo del collezionista Marco Ghigi in un gigantesco dispositivo di visualizzazione in cui siamo invitati a entrare per scoprire il retroscena hardware di un’immagine digitale, solitamente precluso al nostro sguardo. La luminosa sala espositiva è trasformata infatti in una sorta di set cinematografico da un telo verde chroma key che riveste il pavimento e la parete di fondo, al centro del quale è collocata, in posizione leggermente obliqua rispetto all’orizzonte, una piccola barca di legno usurata dal tempo. Il contrasto tra questi due elementi è immediatamente spiazzante: da un lato il verde sgargiante uniforme del telo associato all’astratta tensione superficiale del piano orizzontale e di quello verticale tra loro ortogonali e dall’altro le infinite sfumature del legno sdrucito, impolverato e stinto del barchino esausto, un po’ inclinato come a voler mostrare con pudore allo spettatore il proprio ventre inerme.
Di per sé questo allestimento sarebbe sufficiente a rappresentare la messa in scena di un oggetto, ovvero quel processo di enfatizzazione e decontestualizzazione attraverso il quale esso acquisisce una sorta di neutralità paradigmatica che lo rende adatto a veicolare una molteplicità di allusioni liberamente interscambiabili in base alla sensibilità soggettiva di chi guarda. Ma l’indagine di Nacciarriti si spinge più a fondo: il telo verde è infatti un green screen, strumento utilizzato per realizzare effetti di sovrapposizione di immagini o video, che permette di rimuovere il colore di sfondo della ripresa reale e di sostituirlo con qualsiasi altro scenario. Lasciando a vista l’artificio, l’artista ribalta le regole di questo processo per ricostruire a ritroso un reale fittizio a partire dalla dichiarata decostruzione della sua identità visiva digitale. Il risultato è il silenzioso naufragio di un’immagine in un altrove che appare irraggiungibile nonostante la fisicità materica dei suoi elementi costitutivi sia a portata di mano, al punto che ci è addirittura concesso (muniti di calzari per non lasciare tracce nel set) ispezionarla dall’interno percorrendola in tutta la sua estensione.
Il titolo, definizione tecnica che solitamente si ritrova nella didascalia delle fotografie di documentazione di una mostra quando viene ritratta nel suo complesso, sottolinea l’ambiguità di un’operazione che si mantiene sorprendentemente in bilico tra due istanze di segno opposto. Se da un lato l’artista si appropria, con materiali e tecniche aggiornate, dei più classici procedimenti tautologici di matrice concettuale, dall’altro il medesimo processo, senza necessità di ulteriori interventi da parte sua, si dimostra altrettanto efficace nel materializzare la spettacolarizzazione di una visione di per sé ordinaria. La dimensione della veduta è ulteriormente ribadita nella loggia al piano superiore di KAPPA-NÖUN, sul parapetto della quale sono state collocate due bitte da ormeggio (alle quali sarà impossibile assicurare la barca a causa del dislivello in altezza) che fungono da indicatori di posizionamento per osservare a distanza di sicurezza un oggetto della visione che continua a esercitare il suo misterioso potere di attrazione nonostante tutti i suoi retroscena siano ostentatamente esibiti e dichiarati. E proprio questa dimensione di sdoppiamento è all’origine dell’effetto perturbante suscitato dall’opera, che riesce a integrare senza depotenziarle le suggestioni poetiche ed emotive legate alla fragilità della barca con l’esplicitazione dei meccanismi sottesi alla sua trasformazione in immagine.
Info:
Andrea Nacciarriti. Installation view
7/10 – 5/12/2023
KAPPA-NÖUN
Via Imelde Lambertini 5 – San Lazzaro di Savena (BO)
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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