Cosa rimane oggi dell’arte di dipingere intesa come meticoloso stratificarsi di pigmenti, solventi e vernici sulla tela finalizzato a far emergere da uno sfondo indistinto immagini così avvincenti da far dimenticare la fisicità dei materiali a cui devono la loro esistenza? L’inestimabile patrimonio di tecniche e disegni che un tempo si custodivano nelle botteghe artistiche per essere trasmessi di generazione in generazione è ancora considerato un valore dagli artisti contemporanei che spesso, se interpellati a tale proposito, sono reticenti nel dichiarare di aver raccolto l’eredità dei propri maestri? La pittura in sé, come dimostrano le proposte delle gallerie nelle principali fiere nazionali e internazionali, gode in questi ultimi anni di una vitale ripresa della ricerca, sostenuta dal rinnovato (o forse mai sopito) interesse del collezionismo. Ma, rispetto a quella che storicamente era una prassi consolidata e ineludibile, oggi a guidare le sperimentazioni degli artisti non sembra essere tanto l’esigenza di un’evoluzione che faccia tesoro dell’esperienza del passato, quanto l’ansiosa elaborazione di una cifra espressiva originale fondata sulle specificità individuali dell’autore. Dopo che le avanguardie hanno reciso con orgoglio il legame tra abilità tecnica e valore artistico e dato che negli ultimi anni i nuovi media hanno contribuito a relegare la tecnica a incidentale strumento per veicolare un’emozione o un concetto, anche gran parte dei parametri qualitativi di riferimento precedentemente impiegati per valutare un’opera appaiono sempre più incerti.
Oggi per un artista scegliere di dedicarsi alla pittura intesa in senso tradizionale è più che mai un atto di fede e di coraggio, che implica la libertà mentale di sentirsi in debito nei confronti dei grandi maestri senza temere di non reggere il confronto, o meglio, senza preoccuparsi che essere allievo della storia dell’arte precluda la possibilità di stabilire il proprio stile individuale. Queste riflessioni costituiscono, a mio avviso, il terreno più fertile per contestualizzare la produzione artistica di Andrés David Carrara (1973, La Playa, Argentina), i cui dipinti si possono incontrare, ancora per pochi giorni, alla galleria Reve Art di Bologna. D’Amore e d’Ombra è il titolo di questa rassegna dedicata ai soggetti più indagati dal pittore argentino, ovvero scorci trasognati di Venezia, la sua città d’elezione, nella cui Accademia si è appropriato dei fondamenti della tradizione pittorica che ama, e il gioco degli scacchi, memoria d’infanzia e tema ricorrente fin dagli esordi della sua carriera. In entrambi i casi si tratta di una riflessione sul genere della veduta, interpretata come paesaggio mentale in cui elementi riconoscibili affiorano lentamente tra le velature di colore, facendo emergere allo stesso tempo un preciso discorso sulla pittura, autonomamente articolato quasi sottotraccia dal meticoloso esercizio del dipingere. Quelle di Andrés David Carrara si potrebbero considerare come convocazioni sulla tela di immagini mentali ibride tra il sogno e il ricordo, il riflesso e l’offuscamento della vista, ma anche tra la sgranatura e la sfocatura, l’assorbimento e il trapelare in trasparenza, l’opacità e il riverbero.
Tutti i soggetti raffigurati si manifestano come evanescenti emanazioni di ombre e luci che alludono a visioni mutevoli, la cui sostanza più intima risiede proprio nella dissoluzione, allo stesso modo in cui il colore, steso per velature impercettibili che conservano impressa la trama della tela sottostante, appare un’impalpabile presenza senza peso e spessore. La pratica dell’artista argentino, che in mostra viene messa a confronto con quella di Mario De Maria, Gennaro Favai, Teodoro Wolf Ferrari e Guido Marussig, individua l’essenza della pittura nel suo essere inesauribile matrice di illusioni che nel suo caso, anziché fingere la verosimiglianza e la consistenza di ciò che rappresenta, procede per affievolimenti ed elisioni nel tentativo di far percepire l’aleatorietà del visibile. Se nello spazio inesistente tra uno strato di colore e l’altro riescono a espandersi scenografici palazzi e lussuosi oggetti da salotto di impianto altrettanto architettonico, quanti altri infiniti universi si potrebbero nascondere negli interstizi di ciò che a volte l’abitudine ci porta a considerare come un panorama univoco?
La silenziosa devozione alla pittura di Andrés David Carrara, al di là della precisa posizione teorica sullo specifico del medium che riesce a dimostrare con i fatti, ci ricorda che, come recita il mago Prospero a ogni replica de La Tempesta di Shakespeare, «siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita». Se la pittura condivide con il teatro la vocazione a essere finzione dichiarata, cosa accade quando questa finzione riesce a rivelarci che il reale non è altro che una delle tante incarnazioni possibili di una soverchiante dimensione onirica? Guardando i dipinti di Andrés diremmo che è precisamente questo che dà fascino e significato al nostro essere al mondo, rassicurandoci sul fatto che sarà sempre possibile nasconderci in un misterioso cono d’ombra quando ne avremo voglia, fino a quando nuovi bagliori accenderanno il nostro desiderio di vedere e immaginare.
Info:
Andrés David Carrara. D’Amore e d’Ombra
27/01/2023 – 25/02/2023
Reve Art
via dal Luzzo, 4 – Bologna
In collaborazione con
DEMARCO ARTE Since 1953 – Venezia
https://reveartgallery.com
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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