Rivendicare l’inutilità dell’arte non significa avallare le grossolane teorie di chi è convinto che con la cultura non si mangi; al contrario, vuol dire avere la consapevolezza che, nonostante la deriva materialista e funzionalista che la società sembra aver imboccato, l’uomo non necessiti di soddisfare unicamente bisogni primari, ma anche di azioni che, pur non restituendo benefici tangibili e immediati, gli permettano di dare sfogo ai propri impulsi creativi, al bisogno di esprimersi liberamente, o al semplice desiderio di fermarsi nella contemplazione.
La retrospettiva su Richard Artschwager, artista statunitense di origine europee presentata al Mart in collaborazione con il Guggenheim di Bilbao, sembra proprio sottolineare questo importante aspetto dell’arte. Una grande mostra che rappresenta la prima esposizione antologica in Italia dedicata all’artista venuto a mancare nel 2013, affidata ad un curatore e critico d’eccellenza come Germano Celant.
La vita dell’artista è percorsa attraverso una selezione dei suoi lavori più importanti disposti con la massima libertà, senza seguire pedissequamente criteri cronologici o stilistici. I pezzi che per primi saltano all’attenzione sono indubbiamente le sue strutture in legno e formica: installazioni a metà strada tra opere d’arte e oggetti di arredamento, le opere di Artschwager dilatano il senso del fare artistico, trascinando prodotti industriali nella sfera dell’unicum artigianale. Questi oggetti, modificati e collocati nel contesto museale, diventano “macchine inutili”, destinate a null’altro se non all’essere contemplate. Eppure l’interdizione operata dall’artista alla loro naturale funzione non comunica un senso di morte e di abbandono: anzi, sottratti al loro obbligo di “essere usati”, acquisiscono senso dalla loro stessa esistenza, e circondati dall’aura artistica sembrano diventare monumenti di sé stessi. L’allestimento sapiente contribuisce a generare questo effetto: ogni opera respira in maniera libera nello spazio, senza che si accalchino; in tal modo, ognuna acquisisce una posizione di rilievo nell’inquadratura visiva dello spettatore.
In queste opere si palesa anche la questione della sperimentazione sui materiali, cruciale per Artschwager. Fu nel 1960, dopo aver ricevuto l’incarico di costruire degli altari portatili per navi, che avviò la sua serie di lavori in legno e formica: fu la volontà di trascendere dall’utilitarismo che stava cominciando a scorgere nella società attorno a lui a spingerlo a cercare un’arte che fosse compatibile con la sua essenza di artigiano. Perché utilizzare un materiale come la formica? Come detto da Artschwager stesso, e riportato in una delle frasi impresse sulle pareti delle sale del Mart che ospitano la mostra, “la formica, il materiale più brutto, l’orrore di tutti i tempi, mi è venuta in mente all’improvviso perché ero stanco di guardare tutto questo bellissimo legno”. È la dualità dunque ciò di cui parlano queste opere: del bello e del brutto, dell’alto e del prosaico, del naturale e dell’artificiale. Una dualità che sembra essere presente in tutto: dagli oggetti sacri come il confessionale di Tower III Confessional o l’altare di Up and Out, fino a quelli di arredamento come la sua Chair, o a quelli che hanno a che fare con la creazione artistica come i pianoforti… Se accettiamo il presupposto che ogni cosa conserva in sé una doppia natura, il punto di vista di Artschwager è applicabile indistintamente a tutto ciò che ci circonda.
La sperimentazione sui materiali continua poi in un’altra serie, quella dei dipinti su Celotex. È dopo aver visto un dipinto del pittore esponente dell’espressionismo astratto Franz Kline che comincia in lui la fascinazione per questo materiale; un prodotto industriale che poco ha a che fare con l’arte, formato da particelle di segatura e colla, utilizzato come isolante acustico. Artschwager rimane affascinato dall’effetto tattile che restituiscono queste superfici ruvide, e dalle loro conseguenti potenzialità espressive. Similmente alle opere in legno e formica, anche qui il materiale sembra essere la base da cui partire per rappresentare soggetti molteplici: nelle opere City of Man e Apartment House edifici in bianco e nero emergono lievemente dalla superficie ruvida del quadro, mescolando in un gioco di significanti e significati pittura, scultura e architettura; simile la sorte delle scene di interno di Office Scene e The Bush: in anni in cui il disegno industriale e la produzione di massa cominciavano a farla da padrone, Artschwager sembra prevedere il rischio di standardizzazione e omologazione, e cerca di esorcizzarlo inserendo quella dose di “imperfezione” (e dunque di umanità) che la superficie ruvida del Celotex riesce a comunicare. Fino a quando la figurazione si protrae sempre più verso l’astrazione, con le Excursion, in cui segni di difficile interpretazione sembrano quasi tramutare il materiale in mera superficie decorativa.
Le sculture di setole di nylon sono un altro approdo della sperimentazione di Artschwager: opere giocose e colorate, con le quali crea composizioni monumentali che invadono lo spazio; come i suoi punti esclamativi e interrogativi, che, con il loro effetto straniante, si collocano alla perfezione nel contesto della mostra, una vera e propria “punteggiatura” che invita lo spettatore a fermarsi, riflettere, stupirsi. E cosa dire delle opere in crine, dove Artschwager ribalta il visibile e l’invisibile: il crine di cavallo, materiale impiegato nell’arredamento ma dove viene sempre coperto da altri più nobili, riceve invece in queste sue opere un ruolo da protagonista, delineando figure umane impegnate in acrobazie che sembrano fluttuare nello spazio.
Anche con i Corner Piece Artschwager indaga la tematica dello spazio: installazioni che sembrano generate da un’esplosione avvenuta nella stanza, acquistano senso unicamente se collocate in un preciso luogo, in un angolo appunto.
I materiali usati da Artschwager sono cari anche ai pittori informali e poveristi italiani (il celotex per Burri, le setole di nylon per Pascali…); nelle sue mani però acquisiscono un senso peculiare: è come se, nel processo di raffreddamento del medium tipico dell’estetica pop, frenasse un attimo prima, generando ibridi tra il naturale e l’artificiale che finiscono per confondere i nostri sensi.
Tutto allora sembrerebbe esperimento, nell’opera di Artschwager; ogni suo gesto è proteso verso la ricerca di nuove frontiere nel rapporto tra forma e materia. Epilogo di questa “parabola” è “l’invenzione” dei blp, forma iconica generata, secondo una sua intervista, dai tentativi di intuire “il numero minimo di pennellate necessario per disegnare un gatto”: il risultato sono forme elementari, come dei punti allungati, riprodotti numerose volte in piccole dimensioni o come installazioni ambientali, ai quali l’artista lavora dal 1968 in poi. Dopo anni trascorsi a realizzare opere che permettessero di visualizzare i delicati equilibri tra forma e materia, privilegiando i significanti rispetto ai significati, anche lui cede alla ripetizione della forma assoluta, come se, all’interno di essa, si potesse rintracciare l’estrema sintesi di ciò che definiamo arte.
Stefano D’Alessandro
Info:
Richard Artschwager
a cura di Germano Celant
Mart Rovereto
12 ottobre 2019 – 02 febbraio 2020
Fonti:
https://www.artsy.net/article/editorial-what-is-a-blp-learn-the-story
Richard Artschwager, Apartment House, 1964, Köln, Museum Ludwig
Richard Artschwager, Apartment House, 1964, Köln, Museum Ludwig
Richard Artschwager, Piano grande, 2012, Collezione Prada, Milano, Photo credit: Robert McKeever
Una veduta della mostra allestita al Mart. Ph Mart_Luca Meneghel
is a contemporary art magazine since 1980
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