Potrà l’arte risollevarci da questi tempi bui? La chiusura forzata di musei e biblioteche, cinema e teatri, ha fatto aguzzare l’ingegno delle istituzioni, le quali sono corse ai ripari ricorrendo al digitale per offrire, seppur in maniera mediata, determinati servizi ai loro fruitori. Una propositività e uno slancio encomiabili da parte del mondo della cultura, considerato anche il divario che molte di queste realtà hanno dovuto recuperare con il mondo on-line. Nonostante questa parvenza di normalità ci abbia permesso in fondo di andare avanti, la ferita provocata dagli eventi continuerà a bruciare a lungo: i numerosi morti, la paura che ci ha accomunato nei momenti più critici, la difficoltà di digerire questo “tempo sospeso” che ha caratterizzato i giorni della quarantena, sono sensazioni che ci porteremo dentro per molto tempo. Come reagirà l’arte a tutto questo? Nella storia a noi contemporanea, l’arte ha dimostrato in molte occasioni di poter assolvere a quella che Aristotele definiva “funzione catartica” dell’opera, secondo cui lo spettatore, immedesimandosi dentro di essa, può purificarsi da quegli stati emotivi che lo opprimono nella vita di tutti i giorni.
Tre esempi fra tutti possono farci ben sperare sul fatto che anche da questa amara lezione artisti, galleristi e curatori sapranno cogliere degli insegnamenti e veicolarli attraverso i linguaggi dell’arte.
Nel 1968 un violento terremoto, di magnitudo 6.4, colpisce una vasta area della Sicilia occidentale, la Valle del Belìce, compresa tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo. Ben 14 centri vengono colpiti con conseguenze di diversa intensità, e alcuni di essi rimangono completamente distrutti. Le vicende che riguardano la loro ricostruzione sono travagliate; fra queste spicca il caso di Gibellina nuova, riedificata come una città-museo, grazie anche al contributo di famosi architetti e artisti. Nonostante però l’alto valore artistico dell’intervento, esso si presenta come un’operazione top-down, calata dall’alto, che non è andata incontro alle esigenze della popolazione, né ha contribuito a sviluppare adeguatamente un indotto turistico. Differente invece il destino di Gibellina vecchia; un destino che si incrocia con la figura di Alberto Burri, artista emblematico dell’arte italiana del secondo dopoguerra. Quando, nel 1984, l’artista visita per la prima volta Gibellina, si trova davanti il terribile scenario delle sue macerie. Burri decide di congelare per sempre quelle case distrutte, involucri silenziosi abbandonati al proprio destino, coprendole integralmente di cemento e lasciando libere solo le strade del paese; il risultato è la versione land art di uno dei suoi famosi Cretti, che ricalca fedelmente la topografia della vecchia Gibellina. L’intervento radicale dell’artista assolve appieno alla sua funzione di memento mori, come una splendida lapide, eretta a memoria di una tragedia che non può essere dimenticata; al contempo però, rendendo quegli spazi abbandonati di nuovo attraversabili, sembra volerli restituire a nuova vita. Il progetto iniziale rimane incompiuto per mancanza di fondi; per venticinque, lunghi anni, il “Grande Cretto” si trasforma in un “cantiere infinito” ed è lasciato alla totale incuria. Questo fino a maggio 2015, quando vengono finalmente ultimati i lavori e il “Grande Cretto” viene completato. Dopo anni di abbandono, l’opera ha saputo rivivere diventando la location di installazioni artistiche, performance e perfino la scenografia di documentari; la dimostrazione dunque di come l’arte possa essere fautrice di rinascita, quando interpreta le necessità di un luogo e non rimane distante da chi, quel luogo, lo vive quotidianamente.
Nel 1980, un nuovo terremoto si abbatte sulla penisola, colpendo stavolta i territori dell’Irpinia, la regione storica sita a cavallo tra la Campania e la Basilicata. I danni sono perfino maggiori: circa 280.000 sfollati, 8.848 feriti e, secondo le stime più attendibili, 2.914 morti. Anche stavolta, interi paesi vengono rasi al suolo; di nuovo la ricostruzione sarà lenta, segnata da episodi di corruzione e dirottamento illecito dei finanziamenti. La potenza della scossa tellurica è tale da giungere, seppur causando meno danni, fino a Napoli; città che, in quegli anni, stava vivendo un vero e proprio rinascimento culturale, grazie a una serie di figure dell’arte e dello spettacolo che si adoperavano per portare non solo Napoli nel mondo, ma soprattutto il mondo a Napoli. Fra queste spicca il nome di Lucio Amelio, fondatore della Modern Art Agency, galleria che era situata nella suggestiva Piazza dei Martiri, che diventò ben presto un vero e proprio luogo di incontro di personalità di spicco del panorama artistico dell’epoca. Amelio riuscì infatti a creare un dialogo fecondo tra artisti napoletani, italiani e internazionali, promuovendo le correnti del momento, dal Minimal all’Arte povera, e anticipando i linguaggi che avrebbero dominato negli anni ‘80, quelli della Transavanguardia. Fu lui a concertare il celebre incontro tra Warhol e Beuys, un appuntamento dal valore fortemente simbolico, fra l’America e l’Europa, ma soprattutto tra due modi di vedere il mondo, quello colorato e mondano della pop art e quello austero e impegnato dell’arte concettuale; incontro che non poteva auspicare ad una migliore scenografia se non Napoli, terra da sempre predisposta allo scambio e alle contaminazioni. Dopo il terribile evento del 1980, Amelio pensò di coinvolgere gli artisti che negli anni avevano esposto nella sua galleria, chiedendo a ognuno di loro di realizzare un’opera che avesse come tema il terremoto. La loro risposta non tardò ad arrivare, e il risultato sono lavori in cui si intrecciano numerosi rimandi e suggestioni visive: la cultura partenopea, la storia, la religione, e ovviamente la morte, la distruzione, ma anche l’energia creativa, le pulsioni vitali che vedono proprio nel terremoto la più calzante delle metafore. Le opere daranno vita ad una collezione, dal titolo Terrae Motus, che verrà esposta in varie occasioni, anche all’estero. Nei progetti di Amelio, Terrae Motus avrebbe dovuto costituire il nucleo della permanente del primo museo di arte contemporanea di Napoli; il suo progetto purtroppo non vide mai la luce, complice il mancato dialogo con le istituzioni. Prima di morire lasciò la sua collezione-testamento alla Reggia di Caserta, fiducioso che il corto circuito innescato fra antico e contemporaneo valorizzasse al meglio le opere che la componevano; e dopo tutti questi anni, seppur trascorsi fra allestimenti parziali o che non rispettavano le volontà espositive del suo creatore, Terrae Motus è ancora lì, a ricordarci che anche dai capitoli più bui della nostra vita può nascere un bellissimo fiore.
Risale sempre al 1980 un’altra triste pagina della storia del nostro Paese: il volo di linea IH870, partito da Bologna Borgo Panigale e diretto a Palermo Punta Raisi, cade nel Mar Tirreno. L’incidente conta 81 vittime, tutti gli occupanti dell’aeromobile, tra passeggeri ed equipaggio. A diversi decenni di distanza, ancora non sono del tutto chiare le cause; il 10 settembre 2011, dopo tre anni di dibattimento, una sentenza condanna i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100 milioni di euro in favore dei familiari delle vittime. Il 27 giugno 2007 viene aperto a Bologna il Museo per la Memoria di Ustica; al centro di esso vi è l’installazione dell’artista Christian Boltanski, realizzata con i resti originali dell’aereo. Ciò che più colpisce del Museo è l’atmosfera che accoglie il visitatore: egli percorre una passerella girando attorno alla carcassa dilaniata del velivolo, come se venisse invitato ad osservare le viscere di un gigante inerme. Accanto ad esso, in alcune casse di legno rivestite di plastica nera, sono conservati gli effetti personali dei passeggeri, presenti eppure inaccessibili, inscrutabili. Lungo il percorso sono situati 81 specchi neri, uno per ogni vittima, dietro ai quali è posizionato un altoparlante: i sibili si distinguono a fatica, ci sussurrano all’orecchio dei futili pensieri, come quelli degli ignari protagonisti poco prima dello schianto. L’illuminazione che accompagna la visita, infine, contribuisce ad alimentarne la suggestione: le 81 lampade intermittenti accendono l’hangar per poi farlo sprofondare nel buio, dando l’impressione, con il loro altalenante funzionamento, che la struttura che ci accoglie sia in grado di respirare, e che, dunque, sia essa stessa viva. Quella pensata da Charles Boltanski è un’opera esperienziale, che lavora non tanto sull’elaborazione del lutto, ma sulla volontà di rendere imperitura la memoria dell’evento; d’altronde l’intero progetto del museo, grazie a una sala dedicata al materiale d’archivio, segue questa vocazione, pronto a passare, a chi lo visiterà, il testimone della memoria dei fatti accaduti.
Tre storie diverse, che mostrano come l’arte si nutra di paure, ma anche di sogni e di speranze; dobbiamo essere consapevoli che saremo noi, con i nostri sogni e le nostre speranze, i protagonisti delle storie che l’arte, traendo spunto da questa esperienza, riuscirà a raccontare.
Stefano D’Alessandro
Per approfondire:
Il Cretto di Burri – Intervista a Giancarlo Neri
A cura di Andrea Viliani, Lucio Amelio, Electa Mondadori, Milano 2015
A cura di Livia Velani, Ester Coen e Angelica Tecce, Terrae Motus. La collezione Amelio alla Reggia di Caserta, Skira, 2001
https://www.museomemoriaustica.it/il-museo/
Alberto Burri in front of Cretto di Gibellina, 1987. Ph Vittorugo Contino
A view of the Cretto di Gibellina by Alberto Burri Ph credits: Gabriel Valentini
A view of the Cretto di Gibellina by Alberto Burri Ph credits: MurissaFrancesciosa
Lucio Amelio. Polaroid manipulation, by Augusto De Luca
Andy Warhol, Fate presto, collezione Terrae Motus, Reggia di Caserta
Museo della Memoria di Ustica, Ph credits: Luca Ghedini
Bologna – 27/06/2007 Christian Boltanski – inaugurate the Museo della Memoria di Ustica – here conceptual artist Christian Boltanski who made the concept pf the museum {Roberto Serra / Iguana Press / GraziaNeri}
is a contemporary art magazine since 1980
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