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Arte, tecnologia ed errori. In conversazione con E...

Arte, tecnologia ed errori. In conversazione con Emilio Vavarella

Poco più di trent’anni e un curriculum da fare invidia. Nato a Monfalcone (Gorizia) e cresciuto a cavallo tra Friuli Venezia-Giulia e Sicilia, Emilio Vavarella vanta studi nelle migliori università d’Italia e del mondo: Bologna, Venezia, Gerusalemme e Istanbul, per approdare infine all’Università di Harvard a Cambridge, dove si trova ancora oggi per conseguire un dottorato in Film, Visual Studies e Critical Media Practice. Fresco di vittoria dell’Exibart Prize, l’abbiamo raggiunto telefonicamente per farci raccontare qualcosa in più a proposito della sua seconda personale da GALLLERIAPIÚ, nata dalla collaborazione con Ramdom ed il MAMbo di Bologna. Un’intervista che si è immediatamente trasformata in un’occasione per approfondire la sua ricerca artistica in generale, basata soprattutto sul rapporto tra esseri umani e tecnologia, oggi attuale più che mai.

Manuela Valentini: Il tuo percorso formativo è assai ricco e vario: spazia infatti dall’arte visiva al cinema, dalle arti digitali alla filosofia. Quanto pesa l’interdisciplinarietà nel tuo lavoro? E quanto credi invece sia il caso di porre una linea di demarcazione tra i vari settori?
Emilio Vavarella: L’approccio interdisciplinare non elimina le linee di demarcazione tra ambiti diversi. Propone domande che possono essere poste solo a cavallo tra essi, e propone risposte che hanno valore simultaneamente in più settori. Dunque a me non interessa annullare le linee di demarcazione tra i vari settori. Mi interessa invece uno spazio di autonomia che di volta in volta si connette a discipline diverse in modo da toccare determinati temi e abbracciare determinate metodologie. Ad esempio, in rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) mi collego tanto alla ricerca scientifica e tecnologica, quanto alla filosofia, ma senza subire le limitazioni interne a quegli ambiti. Questo mi permette di lavorare in modo autonomo e di interagire con pubblici diversi. Ciò che mi lega di più al mondo dell’arte è proprio l’apertura verso modalità di lavoro e di ricerca sempre diverse. Solo attraverso la mia ricerca artistica riesco a congiungere tutti i miei interessi. In questo senso essere artista è una scelta obbligata. E, al contempo, il tipo di arte che risulta da questo processo è sempre necessariamente interdisciplinare.

Se non erro, la tua ricerca si basa perlopiù su un’interazione dell’arte contemporanea con la ricerca tecnologico – scientifica. Da un anno a questa parte, molto probabilmente a causa del distanziamento sociale, il virtuale – così come la tecnologia – ha subito un’accelerazione in termini di attenzione alquanto evidente. Come hai tradotto o interpretato questo cambiamento?
Il mio lavoro si è sempre focalizzato sul rapporto tra esseri umani e tecnologia, e i recenti sviluppi in merito alla situazione sanitaria globale confermano che la questione tecnologia continuerà a essere centrale. La situazione è paradossale e dunque estremamente interessante. La tecnologia è alla base di gran parte dei nostri problemi ma la loro soluzione viene sempre ricercata in ambito tecnologico. Come mai? Inoltre la tecnologia viene spesso descritta come razionale ma è frutto di un discorso altamente ideologico. Da cosa deriva questo meccanismo? Per di più la tecnologia viene descritta come qualcosa di innaturale e disumano, eppure è ciò che ci rende propriamente umani, essendo gli esseri umani gli unici animali capaci di vero sviluppo tecnologico. Perché questa negazione di ciò che ci rende quel che siamo? Questi sono tutti temi che ho trattato nel mio lavoro fin dall’inizio. Con la mia ultima opera, rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), ho sviluppato una profonda riflessione sulla tecnologia come parte integrante del concetto di vita, tanto in senso biologico quanto filosofico. Io credo che nei prossimi anni la distinzione tra tecnologia e natura sia destinata a entrare in crisi. La sopravvivenza della specie, come la corsa ai vaccini insegna, potrebbe dipendere ancora una volta dalla nostra capacità di intervenire tecnologicamente su noi stessi. Fino a quando avrà senso parlare di tecnologia come di un qualcosa di distinto dalla natura?

Rimaniamo in tema arte contemporanea/tecnologia. Quale la tua concezione di questa relazione?
Posso parlarti di come questa relazione viene enunciata nel mio lavoro. Si tratta sempre di investigare simultaneamente gli sviluppi di una tecnologia, le sue possibili applicazioni o malfunzionamenti, i suoi meccanismi nascosti, e i discorsi e le ideologie che ne sorreggono l’andamento. Nel 2012 ho lavorato a Digital Pareidolia e investigato alcuni malfunzionamenti nel riconoscimento facciale. Se dieci anni fa la questione poteva sembrare marginale oggi questa tecnologia è ovunque, dagli aeroporti ai supermercati passando per i nostri cellulari, e influisce sulle nostre vite. Inoltre, dati alla mano, importanti studi hanno dimostrato che il riconoscimento facciale si basa in larga parte su banche dati farcite di pregiudizi e stereotipi, e che il risultato del riconoscimento facciale, lungi dall’essere neutrale, acuisce questi pregiudizi per di più ammantandoli di una oggettività fittizia. Sempre nel 2012 ho lavorato con THE GOOGLE TRILOGY su un’idea di immagine-spazio, un’immagine come ambiente virtuale. Oggi, con la realtà virtuale e con gran parte delle nostre vite filtrate da schermi digitali, queste considerazioni risultano ancora più centrali. Un altro tema che ho affrontato da molteplici punti di vista è quello tra la tecnologia e la memoria (MEMORYSCAPES, MNEMOGRAFO, MNEMODRONE, MNEMOSCOPIO). Il tema della memoria mi affascina in particolare perché considero la memoria la base della nostra soggettività e identità. E con le mie opere provo a dare forma al rapporto di co-determinazione che è sempre esistito tra tecnologia e chi crediamo di essere. Infine, dal 2017 in poi ho messo molta enfasi sul tema dell’autonomia non-umana e della creatività macchinica. L’autonomia degli algoritmi è al centro di opere come Do You Like Cyber? e Amazon’s Cabinet of Curiosities, ed è sempre più argomento di dibattito anche al di fuori degli ambienti più specialistici. Sono convinto che anche questo tema sia destinato a divenire sempre più centrale.

Tutte le tue opere partono da un controllo delle fasi progettuali, fino a che il tuo intervento si fa da parte per lasciare spazio alla casualità. Mi riferisco per esempio a The Other Shapes of Things, un progetto che si articola in due parti: Failed Objects e Datamorphosis. In che cosa consistono queste due opere?
THE OTHER SHAPE OF THINGS è il titolo di due progetti scultorei, ancora in corso, prodotti attraverso tecniche e tecnologie eterogenee (scanner 3D, stampanti 3D, manipolazione dati, ecc.). Il primo progetto, THE OTHER SHAPE OF THINGS- 1. Failed Objects (2017-ongoing), parte da una collezione di centinaia di stampe 3D difettose che ho collezionato da tutto il mondo prima che venissero distrutte dai laboratori e le aziende che le avevano prodotte. Il progetto sottopone ciascun oggetto a un processo di produzione seriale incentrato sulla rimediazione dell’errore, e si focalizza sulla sua capacità di rivelare nuove possibilità formali. Il secondo progetto, THE OTHER SHAPE OF THINGS – 2. Datamorphosis (2019-ongoing), è composto da 15 serie scultoree ispirate ai 15 libri che compongono il poema epico Le metamorfosi di Ovidio. Forzando un computer a interpretare dei versi in latino come se fossero codici sorgente e coordinate spaziali, l’opera punta alla produzione di imprevedibili forme scultoree. Credo che il senso vada ricercato proprio nella nostra capacità di accettare l’imprevisto come una forza generatrice. Generatrice tanto di nuove forme estetiche quanto di nuove forme di significazione.

Sebbene il tema del malfunzionamento sia già emerso in una tua precedente risposta, avrei piacere di tornare ancora sull’argomento. In particolare, vorrei soffermarmi su The Google Trilogy, un progetto in tre parti sulla relazione tra uomo, potere ed errore tecnologico. Una di queste tre parti è Report a Problem, per la quale hai viaggiato in Google Street View fotografando tutti i “paesaggi sbagliati” in cui ti sei imbattuto prima che gli altri potessero segnalare il problema, chiedendo all’azienda di correggere le immagini. Da dove deriva questo tuo interesse per l’errore?
Ci sono varie ragioni per questo mio interesse. Un motivo è che l’errore è spesso il risultato di un imprevisto, e, come ti anticipavo, l’imprevisto è sempre una forza generatrice (anche quando rompe e distrugge). Un altro motivo è che l’errore tecnologico spesso rivela falle in un sistema o svela il funzionamento nascosto di una certa tecnologia. Dunque l’errore diventa uno strumento estremamente efficace per comprendere il funzionamento dei sistemi di potere tecnologico che ci circondano. Terzo, l’errore si ricollega alla questione della creatività non-umana. Quando alcuni fa due chatbot di Facebook hanno cominciato a dialogare tra loro in una lingua inventata i ricercatori sono rimasti (e sono ancora oggi) divisi su come interpretare la cosa: un errore di programmazione o il segno di una intelligenza artificiale che sfugge alla comprensione umana? Infine, e innanzitutto, l’apprezzamento estetico. L’errore è spesso una preziosissima fonte di innovazione formale, perché completamente slegato dalle nostre aspettative.

Come la tecnologia, anche l’arte secondo te deve servire a migliorare la nostra vita o a risolvere dei problemi?
A me piace l’idea di un’arte che crei dubbi, problemi, non soluzioni. Esistono già innumerevoli discipline che si occupano di soluzioni e che hanno forti connotati artistici – penso ad esempio all’architettura, al design e all’urbanistica. Imporre al lavoro di un artista una precisa funzionalità implicherebbe affermare che l’artista ha a priori un certo set di obiettivi. Questo alla lunga trasformerebbe l’arte in una prospettiva funzionale. Preferisco invece che la funzione dell’arte contemporanea resti ambigua, aperta, e che cambi di opera in opera. D’altronde le soluzioni pratiche sono tanto importanti quanto le visioni utopiche o le critiche al sistema.

Torniamo ora a parlare dell’opera rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me). Si tratta di una grande installazione basata sulla conversione del tuo codice genetico in tessuto, effettuata da tua madre utilizzando uno dei primi computer d’epoca industriale: il telaio Jacquard del XIX secolo. Il titolo si riferisce alla prima linea di testo risultante dalla genotipizzazione del tuo DNA. The Other Shapes of Me è quasi l’unica a guardare al passato (seppur abbastanza recente), perché il più delle volte il tuo sguardo è rivolto al futuro. Quale il tuo approccio alla storia?
La Storia, con la ‘S’ maiuscola, è sempre qualcosa di vagamente spaventoso e infinitamente affascinante. La mia prima opera, The Sicilian Family, faceva i conti con la storia, con la ‘s’ minuscola, della mia famiglia. Altre mie opere sulla memoria, come MEMORYSCAPES, MNEMOGRAFO e MNEMOSCOPIO, si sono allacciate a una idea di ‘storia personale,’ ma in senso plurale o collettivo. Un discorso trans-storico più ampio lo sto portando avanti con la mia tesi di dottorato ad Harvard. Interdisciplinare e ancora in fase di sviluppo, la tesi si focalizza proprio sulla relazione tra tecnologia, pensiero, e il concetto di essere umano in diversi momenti storici. È una S/storia frutto di un punto di vista particolare, ed è una tesi accademica semplicemente perché questo è il medium più adatto a questo tipo di lavoro.

Le idee, il pensiero sembrano fondamentali per la realizzazione delle tue opere; salvo alcune eccezioni, poi la produzione risulta semplice e abbastanza economica. È così? Ti ritrovi nella definizione di “artista concettuale”?
Assolutamente sì. Come ho detto di recente in un’altra intervista il mio medium principale è il pensiero. Il resto viene dopo. I materiali danno forma ai nostri pensieri ma i pensieri, anche quelli più ambiziosi, sono sempre a buon mercato.

A cosa stai lavorando oggi? Quali i tuoi progetti futuri e in particolare su quale argomento ti stai concentrando?
Sto lavorando a un progetto per il Premio Fattori Contemporaneo e a uno per l’Exibart Prize. Ho anche in programma una collettiva all’Hermitage di San Pietroburgo e un’altra al MOMus – Experimental Arts Center di Salonicco. Sto poi lavorando su due progetti online, uno in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e uno per la Fondazione Imago Mundi. Per quel che riguarda temi e argomenti mi affascina sempre di più il concetto di modello tecnologico o mediale. Macchine e tecnologie hanno sempre offerto modelli per l’interpretazione della ‘natura umana’ e mi sto focalizzando molto sul modo in cui questi modelli hanno influenzato in modo profondo la vita delle persone. La mia tesi di dottorato, di cui ti dicevo, ruota attorno a questa questione. Cosa ha significato essere ‘umani’, e cosa significa essere umani oggigiorno? Cosa sta cambiando nel XXI secolo e cosa è rimasto uguale? Quali modelli di pensiero e quali pratiche concorrono a ridefinire il nostro orizzonte esistenziale?

Manuela Valentini

Info:

www.gallleriapiu.com/project/emilio-vavarella

Emilio Vavarella, The Sicilian Family, 2012-2013

Emilio Vavarella, The google trilogy 6_100, 2012

Emilio Vavarella _ Do You Like Cyber, 2017, vista allestimento @GALLLERIAPIU 2017Emilio Vavarella, Do You Like Cyber, 2017, vista allestimento @ GALLLERIAPIÚ 2017

Emilio Vavarella, The other shape of things_failed object, vista dell’esposizione, GALLLERIAPIÚ 2017

Emilio Vavarella, The Other Shape of Things_failed objects, 2017

Emilio Vavarella, The Google Trilogy – 1. Report a problem, exhibition view ‘That’s it’ @ MAMbo 2018

Emilio Vavarella, Amazon’s Cabinet of Curiosities, 2019

Emilio Vavarella, Amazon’s Cabinet of Curiosities, 2019

Emilio Vavarella, Datamorphosis, 2019. Foto di Stefano Maniero

Emilio Vavarella, rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), @GALLLERIAPIU 2021. Foto di Stefano Maniero

Emilio Vavarella, rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), dettaglio, 2021. Foto di Stefano Maniero

For all the images: courtesy GALLLERIAPIÚ, Bologna


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