Difficile oggi mettere in scena in chiave contemporanea pièce fondamentali del teatro senza tradirne l’essenza, cosa che spesso avviene quando la libera interpretazione si arena nell’aggiunta di elementi volti ad ambientare l’azione in un’epoca coeva a quella dello spettatore, per attualizzarne le tematiche. D’altronde il teatro è una disciplina viva e arroccarsi in un’ipotetica ortodossia rappresentativa sarebbe altrettanto contrario al fine di rinsaldare la nostra familiarità con le sue più alte espressioni.
Non teme queste trappole Theodoros Terzopoulos nella sua versione di “Aspettando Godot”, recentemente rappresentato al Teatro Arena del Sole di Bologna e ora in giro per una tournée che, dopo aver attraversato l’Italia, proseguirà all’estero. La complessa nudità dell’opera teatrale che Beckett scrisse verso la fine degli anni Quaranta, immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale che lo aveva visto combattere partigiano nella resistenza francese, è qui riferita a un universale contesto bellico, in cui il vuoto di senso in cui si dibattono i personaggi, trattato come strumento per manifestare le contraddizioni e le tragiche derive del nostro presente, diventa metafora dell’assurdità di ogni conflitto. Prima che lo spettacolo inizi, un allarme antiaereo allerta il pubblico su questa assimilazione, confermata nel corso del suo svolgimento da una colonna sonora inframezzata da sparatorie e bombardamenti. Anche i personaggi, fin dal loro primo ingresso in scena, appaiono come reduci di una guerra fuori tempo e luogo: nei loro abiti stracciati e insanguinati convergono sia il retaggio carnevalesco del teatro comico d’autore e sia le conseguenze dell’irriducibile cattiveria che li schiera gli uni contro gli altri pur nell’impossibile tentativo di incontro che anima tutta l’azione.
Per la sua pièce Beckett aveva immaginato una scenografia ridotta all’osso, sintetizzata dalla lapidaria indicazione: «Strada di campagna, con albero. È sera». Lo stesso minimalismo si ritrova nella trasposizione del regista greco, che colloca gli attori in un dispositivo scenico di sua invenzione composto da quattro pannelli neri disposti su due livelli che, scorrendo in altezza e in larghezza, alternativamente svelano e nascondono gli attori, costretti a muoversi nei suoi spazi angusti. La struttura individua le reciproche relazioni di potere tra i personaggi: Vladimiro ed Estragone (interpretati rispettivamente da Stefano Randisi ed Enzo Vetrano) sono orizzontali e paritari, con le teste talvolta sovrapposte a comporre un unico essere bifronte, Pozzo (Paolo Musio) è verticale in posizione sopraelevata, Lucky (Giulio Germano Cervi) è interrato fino al collo in una buca, mentre il Ragazzo (Rocco Ancarola) che ogni sera annuncia la procrastinazione della venuta di Godot viene calato dall’alto, anch’egli imbragato in un apparato coercitivo, come un impotente deus ex machina, la cui comparsa è solo provvisoriamente risolutiva.
Questa scenografia, isolando ogni attore in un’angusta intercapedine di vuoto, è una sorta di teatro nel teatro che formalizza l’incapacità dei personaggi di interagire gli uni con gli altri, enfatizzando il fatto che ciascuno di loro si rivolge sempre a sé stesso anche quando parla e ascolta, peraltro senza mai riuscire a capirsi o a farsi capire. Interessante, dal punto di vista iconografico, quanto la struttura richiami alla mente riferimenti alla storia dell’arte più o meno recente, come il brutalismo dei blocchi di acciaio arrugginito di Richard Serra, da lui dedicati alla memoria di amici e colleghi scomparsi, ai tableaux vivant di Bill Viola, fino agli sbarramenti prospettici e all’illuminazione drammatica della grande pittura Cinque e Seicentesca, se pensiamo ad esempio al classico tema di Susanna e i vecchioni, dove i due malintenzionati emergono a mezzobusto da un parapetto analogo a quello da cui si sporgono Vladimiro ed Estragone, a sua volta riconducibile al teatro di burattini e al registro comico.
Gli attori, su indicazione del regista, recitano senza microfono, scelta che rivela la sua intenzione di incarnare l’interrogazione, fondamentale in tutta la prosa del primo Beckett, sul linguaggio e sul senso del parlare. Grande attenzione viene data quindi alla qualità dell’esecuzione orale della scrittura del drammaturgo, in cui la punteggiatura assume la valenza di una partitura musicale, di cui vengono rispettate le pause e gli accenti. Tutta la pièce si potrebbe altrimenti leggere come messa in scena del puro linguaggio e della sua intrinseca capacità di elaborare le variazioni di un’idea iniziale apparentemente esaustiva (l’atto di aspettare inutilmente) attraverso la ripetizione minimamente variata delle medesime opacità del significante, che l’interpretazione degli attori connota ogni volta di nuove sfumature e implicazioni.
Nel discorso corale dei personaggi l’infinita dilazione di una fine senza finalità razionale, estraniando progressivamente il senso delle singole parole, è il motore dell’indagine di Beckett sulla base logica e filosofica del parlare che, pur senza arrivare a un esito, fa intravedere in lontananza, come scrive il filosofo Alain Badiou in Beckett: l’increvable désir (1995), la «poesia dell’inestinguibile desiderio di pensare». Allo stesso modo, i personaggi azzerati in tutte le risorse esistenziali che vediamo motivarsi in scena attraverso un obiettivo, pur insensato, che li spinge a decidere di arrivare al giorno dopo (scartando l’idea di impiccarsi) ci dimostrano come per loro il dilazionare la fine sia una modalità di vivere, conoscere, fare esperienza e provare a legarsi agli altri. Theodoros Terzopoulos asseconda il profondo amore del drammaturgo irlandese per l’ostinazione vitale di un’umanità colta nella sua innata crudeltà e nella sua disarmante tenerezza, valorizzando nel suo training attoriale la presenza fisica degli interpreti, stimolati a scavarsi dentro per scoprire che nel fondo c’è sempre una possibilità, nonostante la tragedia del mondo in cui viviamo sembri quotidianamente confermare la definitiva perdita di senso dell’esistere.
Prossime rappresentazioni:
Teatro Concordia, San Benedetto del Tronto – 28 – 29 febbraio 2024
Teatro di Jesi, Jesi – 2 marzo 2024
Piccolo Teatro di Milano-Teatro D’Europa – 5 – 10 marzo 2024
Athens Onassis Foundation, Grecia – 15 – 19 maggio 2024
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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