READING

Biennale Arte 2022: gli autori di Paesi non democr...

Biennale Arte 2022: gli autori di Paesi non democratici sono diversi?

Con l’invasione russa dell’Ucraina la distinzione tra paesi democratici e non pare diventata più che mai decisiva per i destini dell’umanità. Tuttavia la distinzione non è così netta. Anche paesi supposti non democratici, ad esempio, mantengono ottimi rapporti con quelli democratici, se utili alle loro strategie. D’altra parte, dall’inizio del terzo millennio ci sono autorevoli politologici come Colin Crouch che parlano della nostra epoca come epoca post-democratica, viste le innumerevoli e gravi disfunzioni che assillano gli stessi regimi democratici. E per l’arte? Per l’arte contemporanea ha senso distinguere le opere e gli autori provenienti da paesi democratici dalle opere e dagli autori provenienti da paesi ritenuti non democratici? È questa l’interrogazione che abbiano cercato di porci visitando una delle occasioni più adeguate a perlustrare la situazione dell’arte visiva contemporanea a livello mondiale: ossia la Biennale di Venezia. Ben consci dell’enorme portata della nostra questione non abbiamo preteso di trovarvi risposta immediata, ma abbiamo raccolto idee per continuare a porcela. Ma una Biennale è… una Biennale! Verrebbe da aggiungere: specie se s’intitola come questa volta Il latte dei sogni! Sarebbe a dire una dimensione così ricca di stimoli sensoriali e intellettuali, che per quanto siano felici, incerti o tristi, rendono vana ogni sintesi anche solo impressionistica. E tuttavia un senso, un retrogusto, un leitmotiv d’insieme e singolare ogni edizione lo lascia. Stavolta, volendo azzardare su questo terreno comunque scivoloso, ci pare il caso di osare un aggettivo: primordiale. Un “primordiale” fatto di riferimenti alla terra, all’animale, al vegetale, alle controversie sull’invasività tecnologica, all’assenza dell’umano, al materno generativo, alle radici etniche più tradizionali: tutto questo come cifra di convergenza di tante opere viste in Biennale. Come se l’arte contemporanea non si volesse più fidare di quel rincorrersi attualistico di dati e informazioni che saturano fino quasi al soffocamento il nostro presente. Come se l’arte contemporanea cercasse nei fondamenti dell’ambiente da cui veniamo e in cui viviamo la fonte prima dell’ispirazione. Una sorta di diffuso e condiviso ecologismo dunque, ma ripensato, re-immaginato, rivissuto, ridipinto nelle sue dimensioni più recondite. Ma se questa notazione vale – e sia chiaro: non è detto, vista l’ampiezza sconfinata delle intuizioni che la frequentazione di questa Biennale può procurare – , vale fino al punto da travalicare la distinzione che qui più ci interessa, quella tra autori operanti in paesi democratici e autori operanti in  paesi non democratici? Se così fosse e qualora si sapesse leggere le conseguenze non da “conflitto tra civiltà”, ma umanistiche, ne uscirebbe un messaggio di speranza, ovvero che in qualunque regime politico sarebbe individuabile una stessa sia pur vaga tendenza nella sensibilità e nell’intendimento degli artisti. Una sensibilità e un intendimento che comunque rappresenterebbero e renderebbero pertinente il fatto semplice e banale, ma dai complicatissimi riverberi, che di umanità ce ne è una, e una sola. E che dunque la pace universale, non le guerre, ne dovrebbe essere la condizione sovrana.

Ora è proprio questa l’idea che ci è restata in mente dopo avere ripensato cosa ci hanno lasciato di particolare le nostre visite ai padiglioni di Arabia Saudita, Azerbaijan, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kazakhstan, Kirgyzstan e Oman[1]. Nel padiglione Arabia Saudita, curato da Reem Fadda, è esposta un’unica opera gigantesca e monolitica fatta di materiale organico, ma supportata da una struttura meccanica. L’autore è Muhannad Shono, artista particolarmente sensibile alla problematica dei cicli vitali e del potere di rinascita in essi sempre operante. Ad essere rappresentata è una sorta di albero monumentale, quasi debordante lo spazio espositivo in cui è situato, ma anche quasi accasciato su un lato: sofferente e al tempo stesso invasivo. Una chiara simbolizzazione del vano tentativo contemporaneo di ingabbiare la natura, anche a costo di sofferenze che immancabilmente diventano anche nostre, se non siamo capaci di apprezzare le sue energia e bellezza, a loro volta evocate dalla sontuosità sensuale e accogliente dell’albero di Shono.

Nel padiglione dell’Azerbaijan le autrici invece sono tante e tutte donne; Zhuk, Infinity, Ramina Saadatkhan, Fidan Novruzova, Fidan Akhundova, Sabiha Khankishiyeva, Agdes Baghirzade (la curatela è di Emin Mammadov), sette artiste la cui presenza collettiva ben rappresenta lo spirito della Biennale voluto dalla direttrice Cecilia Alemani, particolarmente declinato al femminile. Sotto il titolo generale, Born to Love, le tematiche che in questo padiglione si rincorrono hanno a che fare con qualcosa come il tempo vitale, la storia culturale azera, l’ambiguità delle modernizzazioni tecnologiche, non da ultimo gli effetti deleteri lasciati sul mondo dalla pandemia per altro non ancora vinta. Ma più in generale e in sottofondo a essere evocati e interrogati con ammirevole discrezione sono fino anche i destini che attendono l’arte contemporanea in questa attuale svolta epocale.

Quanto alla Cina, il suo padiglione presenta le opere di Liu Jiayu, Wang Yuyang, Xu Lei, AT Group (la cura è di Zhang Zikang). Il titolo: Meta-Scapes. Motivo ispiratore: il concetto di jing, con tutti i significati che esso ha nella letteratura cinese tradizionale e che viene assunto come chiave interpretativa della dialettica tra umanità, tecnologia e natura. Un paesaggio tridimensionale di montagne ridotte artificialmente a grigioazzurri, simboli oramai freddi e lontani, si accompagna a un ingombrante corpo sospeso di ferraglie agglomerate che potrebbe essere un residuo aerospaziale e, più in distanza, a un albero anch’esso sollevato dal suolo, senza radici. Più in angolo poi è disposto un ampio insieme di forme ritagliate, tra le quali sono riconoscibili le fattezze di  un bosco composto di materiale plastico e multicolorato. Virtù (anche estetiche) e angosce della modernizzazione tanto inseguita in Cina trovano così un loro momento di bellezza e di inquieta riflessione.

Supermammelle rosa, giganti, sospese e ondeggianti a mezza altezza ci accolgono nel padiglione Egitto curato da Mohamed Shoukry. L’esteticamente fragorosa e quasi imbarazzante (tanto da rendere complessa la deambulazione dello spettatore tra i suoi meandri) installazione è di Mohamed Shoukry, Ahmed El Shaer e Weaam El Masry. A essere così evocata è una terra promessa, come uscita da una narrazione panteistica e ancestrale, dove latte e miele scorrono a fiumi. Ma le immagini proiettate sulla rotondità di queste forme pre-erotiche danno il senso di un’altra dimensione, di nuovo tecnologica, che disturba o intensifica l’atmosfera onirica del tutto. Volendo ci si potrebbe anche vedere un sia pur vago sintomo di quell’odierno Egitto di al-Sisi così in idillio da sogno con le democrazie occidentali in traffici vari (inclusi quelli di armamenti) e con le fiumane dei loro turisti a caccia di svaghi, quanto restio a lasciare inquisire sull’omicidio del dottorando Giulio Regeni.

Noto per essere stato figura di spicco di quel gruppo dei “cinque”artisti  che negli anni Ottanta ha costituito l’avanguardia dell’arte visiva negli Emirati Arabi importandovi la prima pratica di Land Art, Mohamed Ahmed Ibrahim è l’autore delle opere presentate nel padiglione di questo paese  a cura di Maya Allisonnel e Mohamed Ahmed Ibrahim. Qui colore, gioco e allegria sembrano farla da padroni. La singola installazione che occupa l’intero spazio del Padiglione offre allo sguardo dello spettatore una teoria disordinata e ondeggiante di sculture di grandezza e foggia tra l’antro- e il bio-morfo. Corpi umani o alberi? Comunque qui il regime è quello di metamorfosi e mutazioni anzitutto gioiose. Una cifra di spensieratezza e ottimismo, favoriti forse dal sempre invidiabile reddito pro capite vantato da questo paese, comunque in discreto contrasto col clima piuttosto pensieroso e inquieto aleggiante in tutto il resto della biennale.

Il gruppo interdisciplinare dal nome Orta collective e formato da Alexandra Morozova, Rusten Begenov, Darya Jumelya, Alexander Bakanov e Sabina Kuangaliyeva è autore e curatore del padiglione del Kazakhstan. Protagonista e ispiratore qui è l’artista, inventore, scrittore e “pazzoide urbano” Sergey Kalmykov che, pur avendo ispirato generazioni di artisti, è morto nel 1967 ad Almaty in uno stato di totale oblio. Robot arrugginiti, supporti di memoria ricamati, riflettori in alluminio e un monumentale Generatore Circolare di Genio fatto di luce e cartone popolano il padiglione richiamando la figura di questo personaggio ispiratore. Ed è in suo nome che sono escogitati esperimenti scientifici e artistici volti alla scoperta del Portale di una misteriosa quarta dimensione. Un approccio totalmente inedito alla creatività umana è così simulato. Chi si ricordasse la passata adesione di questo paese all’Urss, potrebbe così forse intravedere in queste performance dell’Orta Collective una divertita, anarchica e ironica rievocazione dell’ideologia della sperimentazione socialista a suo tempo volta alla creazione dell’”uomo nuovo sovietico”.

Nel padiglione del Kyrkyzstan , per la prima volta alla Biennale, situato alla Giudecca e curato da Janet Rady, Firouz Farman Farmaian presenta alcuni suoi dipinti di forte impatto. L’impostazione del tutto astratta e informale, ma con una accentuata tensione simbolica, mira a rievocare le emozioni e i ricordi dell’esilio del pittore nato in Iran, quando ancora bambino dovette fuggire a seguito della rivoluzione khomeinista del 1979. Questa “dislocazione nomade” come la chiama lo stesso Farmaian lo ha portato a indagare sul passato tribale del suo clan, sui vincoli che lo hanno legato non solo alla cultura kirghiza, ma tramite questa ai miti più ancestrali dell’antica Persia. Un viaggio introspettivo da cui emerge una riscoperta e una riproposizione affascinante di segni iconici primordiali

Aisha Stoby è la curatrice del padiglione dell’Oman dove espongono le loro opere Anwar Sonja, Hassan Meer, Budoor Al Riyami, Radhika Al Khimji e Raiya Al Rawahi. Titolo dell’insieme è Destined Imaginaries. Su tutto il resto si impone la figura si direbbe di un vecchio saggio che compare su uno schermo all’interno di una capsula dove lo spettatore può assistere seduto. Le sue disquisizioni tornano sul tema già altrove ben presente: il rapporto tra uomo e tecnologia. La domanda centrale riguarda cosa il primo perde di ciò che gli è più essenziale in rapporto ai vantaggi che la seconda offre. La morale della favola non manca. Ed è, grosso modo, l’invito a una presa di coscienza del fatto che anche la massima tecnologia è comunque creazione dell’uomo, sicché, quand’anche quest’ultimo si ritrovi disorientato per la complessità delle sue scoperte, può sempre ritrovare all’interno di sé stesso di che venirne a capo.

A mo’ di conclusione, si lascerà quindi al lettore motivato in tal senso stabilire se, quanto e come l’apprezzamento di simili opere e artisti operanti in paesi non democratici possa fare a meno di ricorrere a parametri di giudizio diversi da quelli utilizzati per opere e artisti operanti in paesi democratici.

Valerio Romitelli

[1] Si veda in proposito il sito https://www.labiennale.org/it/arte/2022/partecipazioni-nazionali da cui sono tratte anche alcune informazioni qui utilizzate.

Pavilion of Saudi Arabia, Muhannad Shono, The Teaching Tree, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Andrea Avezzù, courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of Azerbaijan, Narmin Israfilova, Born to Love, 2022. Dipinto, installazione. Rendering fotografico di Zhuk (Narmin Israfilova). Courtesy Zhuk (Narmin Israfilova)

Pavilion of China, Liu Jiayu, Wang Yuyang, Xu Lei, AT Group, META-SCAPE, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Andrea Avezzù, courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of Egypt, Eden-Like Garden Preserved for the Chosen Ones, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti, courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of United Arab Emirates, Mohamed Ahmed Ibrahim: Between Sunrise and Sunset, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Andrea Avezzù, courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of Kazakhistan, Lai-Phi-Chu-Plee-Lapa, Centre for the New Genius, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: ORTA collective, courtesy e © ORTA collective

Pavilion of Kyrgyz Republic, Firouz Farman Farmaian, Zero One, sketch of the installation, 2021. Acrylic Marker, White China Ink, White HB Pencil on Black Canson Paper, 75 × 106 cm. Courtesy of the artist

Pavilion of Oman, Destined Imaginaries, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Camilla Pappagallo per Juliet


RELATED POST

  1. Antonella Giorgia Cattani

    2 Giugno

    Molto coraggioso!
    Grazie per la sottolineatura!

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.