Stranieri Ovunque, Foreigners Everywhere, il tema individuato dal curatore Adriano Pedrosa per la 60esima edizione della Biennale Arte, deriva da un’opera del collettivo italo-britannico Claire Fontaine, una scultura neon che accoglie in versione bifronte il pubblico all’ingresso del Padiglione Centrale ai Giardini per poi ripresentarsi in forma diffusa e multilinguistica a ideale conclusione della visita all’Arsenale.
L’input è cogente ed estremamente attuale nel sintetizzare lo straniamento e le contraddizioni della comunità mondiale globalizzata, in cui le merci circolano liberamente ma le persone devono sottostare a restrizioni differenti a seconda della loro provenienza e dove singoli Paesi detentori di armi di distruzione talmente potenti da far esplodere il pianeta minacciano di utilizzarle per risolvere in modo radicale conflitti particolaristici. Si sente dire da più parti che siamo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale, prospettiva (non così immotivatamente catastrofica, come dimostrano i più recenti eventi di geopolitica) che ha radici, in ultima istanza, proprio nell’attitudine a percepire l’altro come pericolosamente estraneo e quindi come un potenziale nemico. L’arte dovrebbe essere un sensibile sismografo del nostro tempo per la sua capacità di rilevare e interpretare connessioni, fatti e orientamenti a partire da punti di vista svincolati dalla loro sistematizzazione ufficiale, aprendo nuovi orizzonti di consapevolezza sul nostro essere al mondo.
Questo ci si aspetterebbe (e di cui ci sarebbe bisogno) in relazione alla tematica proposta, assieme a una potente rassegna di lavori altamente significativi anche dal punto di vista della ricerca più specificatamente artistica, dato il prestigio internazionale dell’occasione espositiva e le conseguenti possibilità di finanziamento, che superano di gran lunga il budget disponibile per la maggior parte delle rassegne di questo genere. Delude quindi constatare nella mostra internazionale che il potenziale dirompente dell’argomento proposto si è di fatto stemperato in un’ennesima apologia degli esclusi (dalla storia, dalla politica e dal sistema dell’arte), espressione di un anticolonialismo di maniera. La complessità del problema sembra dunque ancora una volta risolversi in modo semplicistico nella valorizzazione di artisti non occidentali al loro esordio in Biennale e preferibilmente espressione di qualche minoranza, le cui poetiche recuperano a vario titolo linguaggi espressivi che cercano nelle pratiche tradizionali la spinta per le rivendicazioni del presente. Emblematica a questo riguardo è la facciata del padiglione Centrale ai Giardini, interamente rivestita dal murale realizzato dal collettivo artistico indigeno dell’Amazzonia MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) che racconta in stile neopop la storia di kapewë pukeni (il ponte-alligatore), in cui l’origine mitica della separazione tra i popoli del continente asiatico e di quello americano viene ricondotta al tradimento, da parte degli uomini, della fiducia dell’alligatore che li trasportava sulla schiena attraverso lo stretto di Bering.
L’indirizzo programmaticamente folk, naïf e regressivamente rituale della mostra internazionale si riverbera anche nelle scelte dei curatori dei Padiglioni Nazionali, che sembrano fare a gara per riesumare storie, tecniche ed estetiche accomunate dall’intento (più o meno eticamente autentico) di perseguire l’agognata “certificazione di conformità anti-colonialista”. Paradigmatico a questo riguardo è, ad esempio, il Padiglione Americano, in cui per la prima volta la rappresentanza del Paese è affidata a un artista di origini Cherokee, Jeffrey Gibson, che ibrida motivi, geometrie e artigianato dei nativi americani con squillanti cromie afferenti all’ambito digitale e testi di attivismo queer. Oppure il Padiglione dei Paesi Nordici, dove l’installazione audiovisiva The Altersea Opera, realizzata dall’artista Lap-See Lam (Svezia) in collaborazione con il compositore sperimentale Tze Yeung Ho (Norvegia) e l’artista tessile Kholod Hawash (Finlandia), celebra la figura mitologica cantonese del Lo Ting – metà pesce e metà uomo – con una monumentale nave-drago (per costruire la quale Lap-See Lam ha lavorato a stretto contatto con il maestro artigiano hongkonghese delle impalcature di bambù Ho Yeung Chan) e una performance in cui gli attori indossano abiti impreziositi da ricami raffiguranti creature mitologiche.
E ancora, per concludere una triade arbitrariamente selezionata tra tanti altri esempi possibili, il Padiglione Paesi Bassi, che ha scelto di ospitare il collettivo di artisti congolesi Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC) con sede a Lusanga, in una piantagione un tempo appartenuta alla multinazionale Unilever, le cui sculture arcaicamente brutali stigmatizzano antichi e nuovi episodi di sfruttamento e sopraffazione ai danni della comunità locale. Il picco di tale approccio si raggiunge nel Padiglione Spagna, all’interno del quale la peruviana Sandra Gamarra Heshiki (prima artista straniera a rappresentare la nazione alla Biennale) ricrea un vero e proprio museo della colonizzazione spagnola in America Latina, con l’inequivocabile titolo Migrant Art Gallery. La mostra ivi ospitata è suddivisa in cinque sezioni in cui si susseguono erbari di piante infestanti assimilate agli invasori umani, manufatti artigianali e interventi testuali o di cancellazione su riproduzioni di opere iconiche della cultura spagnola. Il progetto è talmente didascalico nelle sue modalità di denuncia delle culture silenziate da risultare (e se questo fosse l’intento, l’idea sarebbe geniale!) un’ironica messa in scena dei più ricorrenti processi di decolonizzazione in arte, che ne conferma l’inflazione come consolidato maistream degli ultimi anni.
In controtendenza con questa generalizzata e acritica assunzione del complesso di colpa da parte delle nazioni occidentali, a cui fa da contraltare l’enunciazione (altrettanto artisticamente prevedibile) dei soprusi da parte delle vittime, menzioniamo ora alcuni dei padiglioni che maggiormente si distinguono per originalità di linguaggio e di rielaborazione del tema. Anzitutto il Padiglione Egitto, dove Wael Shawky presenta il film in otto atti Drama 1882, incentrato sulla rivolta nazionalista (1879-1882) contro il dominio imperiale ottomano, britannico e francese guidata dal colonnello di origini contadine Aḥmad ʿOrābī, che cercò di destituire il Chedivè Tawfīq Pascià e porre fine all’influenza europea e turca sul paese. L’opera, magistrale nel suo orchestrare schiere di attori in costumi d’epoca, set ambientali realizzati artigianalmente e una concezione di opera contemporanea profondamente radicata nella tradizione, riflette sull’intricata gestazione dell’identità nazionale egiziana enfatizzando contraddizioni, ambiguità e mistificazioni delle politiche sottese agli avvenimenti storici. La portata universale della tipizzazione dei ruoli dei personaggi in scena è commoventemente efficace nel mettere a nudo vincitori e vinti come impotenti marionette di una storia indifferente ai destini dell’umanità.
Si staglia nella sua singolarità il Padiglione Polonia, con la videoinstallazione partecipativa Ripetete dopo di me II del collettivo Open Group (Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga). I protagonisti dei due video sono civili ucraini, rifugiati di guerra che rielaborano il trauma del conflitto ricreando con suoni onomatopeici i rumori degli armamenti che hanno imparato a riconoscere, invitando il pubblico a ripeterli dopo di loro in un destabilizzante karaoke. Scariche di proiettili, colpi di cannone, allarmi, sirene ed esplosioni sono eretti a linguaggio universale dell’umanità militarizzata, idioma terminale di un futuro assoggettato a politiche nazionaliste e imperialiste. Di segno completamente diverso il Padiglione Francia, dove Julien Creuzet presenta l’installazione ambientale Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune. Inno gioioso alle molteplici costellazioni della vita che la pace renderebbe possibili, la videoinstallazione immerge il visitatore in un amniotico ambiente sottomarino, dove immagini in movimento proiettate a tutta parete si fondono in modo inaspettatamente felice con delicate sculture in materiali poveri disseminate nello spazio fisicamente percorribile. Qui viene proposto (pur senza particolari profondità) un incantato modello di convivenza basato sulla poesia delle cose, uno spazio raffinatamente infantile in cui assaporare per un attimo uno stato di quiete assoluto.
Il Padiglione Germania propone un progetto complesso, intitolato Thresholds, che coinvolge gli artisti Yael Bartana ed Ersan Mondtag nell’abituale sede ai Giardini, trasformata in una sorta di bunker seminterrato, e Michael Akstaller, Nicole L’Huillier, Robert Lippok e Jan St. Werner in un’estensione all’Isola Della Certosa. Yael Bartana immagina la fuga da un mondo sull’orlo della devastazione economica e politica in un’epopea futuristica, in forte debito con la filmografia di fantascienza, in cui l’immaginario mitologico boschivo germanico viene accostato agli insegnamenti mistici della cabala ebraica, passando per le tecnologie speculative. Alla trionfale visionarietà dell’artista israeliana il regista d’opera e teatro Ersan Mondtag contrappone il suo vivente Monument eines unbekannten Menschen (monumento a un essere umano ignoto), ispirato alla storia di suo nonno, Hasan Aygün, che negli anni Sessanta si trasferì dall’Anatolia centrale a Berlino ovest per lavorare nelle fabbriche dell’azienda Eternit, produttrice del letale amianto che fu causa anche della sua morte. In una torre che sembra alludere all’eterna ripetizione di queste storie di migrazione dimenticate, l’artista assieme a cinque performer rievoca frammenti biografici antieroici in un happening noir ambientato in uno squallido appartamento in stile DDR. L’opera, apertamente estetizzante e manierata, è conturbante nella sua capacità di farci esperire l’atmosfera di una condizione esistenziale che travolge il riferimento storiografico.
È per certi versi accostabile a questo approccio al Padiglione Serbia l’installazione ambientale Exposition coloniale di Aleksandar Denić composta da un micro villaggio di moduli architettonici abitabili che riproducono ambienti ordinari provenienti da un recente passato, come una cabina telefonica, una sauna, un chiosco con juke-box funzionante, una camera da letto con la televisione accesa, ciascuno dei quali viene percepito come anacronistico o artificiale. Quello che l’artista propone è una sorta di teatro concettuale dell’anima degli oggetti sotto l’egida della scritta rovesciata EUROPE, un invito a individuare le tracce della natura transitoria di ogni società. Austero ed essenziale, il Padiglione Romania propone una quadreria di dipinti e mosaici ispirati al realismo socialista, realizzati da Șerban Savu e Atelier Brenda (Nana Esi, Sophie Keij). L’iconografia di regime, assunta come stile e svuotata della sua portata ideologica, riconduce l’alienazione contemporanea a un’ambigua indistinzione tra lavoro e riposo e all’obsolescenza del primo quale paradigma per la costruzione delle persone in una società sempre più sconnessa dalle reali necessità dell’individuo.
Il Padiglione Svizzera stupisce con l’allestimento multimediale Super Superior Civilizations di Guerreiro do Divino Amor, che ironizza con fantasmagorica intelligenza sulle logiche nazionali di autorappresentazione celebrativa sottese alla comunicazione massmediatica. Articolata in due parti, Miracle of Helvetia e Roma Talismano, la mostra sovverte ed esaspera i cliché in cui si formalizzano questioni politiche cruciali come la gestione del potere e dell’immaginario collettivo da parte dei media, della finanza e della religione. Attraverso taglienti collisioni di senso e iperboliche allucinazioni l’artista sbeffeggia la natura finzionale di ogni tentativo ufficiale di costruzione delle identità nazionali per smentire dalle fondamenta la narrazione da cui trae forza la presunzione di superiorità della civiltà occidentale. La Svizzera viene qui descritta come felice paradiso capitalista in cui il benessere della popolazione, la tutela della natura e uno sviluppo tecnologico all’avanguardia sono garantiti da Helvetia, imperturbabile dea madre responsabile della prosperità finanziaria del Paese. Lo spirito di Roma, invece, è impersonato da una sovrabbondante divinità queer brasiliana che ne magnifica le millenarie bellezze.
All’Arsenale, segnaliamo il Padiglione Irlanda con l’installazione video multicanale Romantic Ireland di Eimear Walshe, saga post-moderna di antagonismi generazionali e di classe che ricollega idealmente la contestazione fondiaria di fine Ottocento in Irlanda e la crisi abitativa attualmente in corso nel Paese. L’azione è ambientata in un sito di costruzione con l’antica tecnica della terra cruda, forma di architettura vernacolare che prevedeva la collaborazione di gruppi di lavoratori, definiti “meitheal” riuniti da prossimità parentale o abitativa. Sullo schermo performer ecletticamente paludati con maschere in lattice fetish e abiti Ottocenteschi mimano scene di sopraffazione in cui anche le labili ipotesi di conciliazione che emergono risultano sottilmente inquietanti. La colonna sonora del dramma è un’opera composta da Amanda Feery su libretto di Eimear Walshe, che rievoca uno sfratto avvenuto nella notte del 1943 mentre il Primo Ministro dell’epoca pronunciava in diretta radio il discorso The Ireland that we dreamed of. Questa surreale rievocazione stigmatizza la violenza insita nella strumentalizzazione politica delle vite dei cittadini da parte dei governanti di tutti i tempi. Concludiamo quest’excursus menzionando il Padiglione Islanda, dedicato all’installazione concettuale That’s a Very Large Number – A Commerzbau di Hildigunnur Birgisdóttir. L’artista si appropria delle icone e del linguaggio della produzione di massa in un progetto immersivo e dematerializzato che si colloca nel solco della tradizione del “Merzbau”, del dadaista tedesco Kurt Schwitters.
Info:
60esima Biennale Arte
20/04 – 24/11/2024
Venezia, Giardini – Arsenale
https://www.labiennale.org/it/arte/2024
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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