C’è un prima e un dopo Harald Szeemann. Prima di Harald le mostre museali si costruivano con le opere (tele incorniciate o sculture imbalsamate sui piedistalli), dopo Harald le mostre si sono costruite con gli artisti. Nello specifico “When Attitudes Become Form”, (Kunstahalle Bern, 1969) segnò una linea di confine tra il vecchio sentire e un nuovo modo per il curatore di porsi in dialogo con gli artisti. Di conseguenza sono diventati importanti i luoghi che dovevano ospitare le opere/installazioni, tanto che un ragionare sugli ambienti extra-artistici (il superamento del cosiddetto white cube) ha ispirato tutte le ricerche e i percorsi cerebrali delle neo-avanguardie, dagli anni Sessanta in poi. Certo, Szeemann non fece altro che registrare un sentimento che era già nell’aria da anni, ma lo registrò come figura istituzionale, come direttore di uno spazio pubblico. Che poi questi luoghi siano stati le discoteche, la natura, la piazza di una città, lo spazio esterno di un museo, una scuola, un ospizio o il tetto di un palazzo (giusto per fare un piccolo elenco) le varie coniugazioni sono dipese solo dalla fantasia scatenata e dirompente della creatività di quegli anni e del decennio successivo. E di tutti coloro che hanno fiancheggiato e sostenuto questa situazione, dai critici come Germano Celant ai galleristi da prima linea come Fabio Sargentini (pensiamo, a Roma, e a tutta l’attività dell’Attico), e questo giusto per indicare due nomi tra i moltissimi che si sono schierati per il nuovo e la spettacolarizzazione dell’arte, rimangono le tracce nei documenti fotografici che di certo hanno fatto storia e che senza di questi non avremmo traccia su cui proseguire. Si dirà che in mezzo c’è stato prima il new Dada (e gli happening di Kaprow e Rauschenberg), poi la Pop, e prima ancora il gruppo Gutai e i Fluxus che di certo hanno molto lavorato sul concetto di Arte/Vita, e così via, giusto per parlare un po’ di aria e istanze “rivoluzionarie” che volevano sovvertire il mondo e anche schiaffeggiare il buon gusto borghese. Ma quella catena sistemica che ha visto una stretta collaborazione tra una mente organizzatrice (quella del critico “militante” o “militare” (secondo l’icastica definizione di Achille Bonito Oliva) e l’assegnazione o commessa di un lavoro per una sala, una piazza, uno spazio specifico (all’epoca non si parlava ancora di site specific, eppure tutte le opere fondamentali di Gino De Dominicis non sono state sempre concepite come site specific?) è diventata organica da un certo momento in poi. In seguito sono venute le opere aggregate alle azioni, la processualità estetica, i fenomeni disseminativi e dissipativi, fino a capire che una bella cornice (e non solo quella museale, ma quella di una città a far da sfondo o una natura forte e ragguardevole) potevano contribuire all’efficacia di un’opera vista anche attraverso il filtro di un documento fotografico. Infatti, che cosa sarebbe rimasto delle eroiche testimonianze della Land Art (da Michael Heizer a Robert Smithson, da Richard Long a Dennis Oppenheim) senza i videotapes o le fotografie che ne narrano la singole vicende? E questo al di là di una sensazione di nuovo che i “nuovi” media hanno instillato nella mente degli autori, come una sorta di ubriacatura che ha attraversato poi tutti gli anni Settanta, anche nella declinazione costrittiva di autori di certo non preparati per rispondere al quesito che una tecnica in apparenza semplice, in definitiva, si è ben presto rivelata obsoleta e noiosa.
La BIENNALE GHERDËINA è figlia di questo modo di sentire innovativo, è figlia di questa volontà di collocare le opere sul territorio, di volerle disseminare, di volerle porre in dialogo non solo tra di loro (tra opera e opera), ma anche tra opera e contesto, tra opera e persona altra dallo specialista o dall’abituale e ristretto frequentatore dell’arte contemporanea. A pensarci bene c’è anche un po’ di Volterra crispoltiana in questo modo di procedere (per esempio la marginalità del luogo che ospita la manifestazione: infatti né Volterra né la Val Gardena possono essere paragonate a un centro metropolitano), il che va però letto come senso positivo e allargato della storia e non semplicemente come visione antisistemica o politicizzata.
La BIENNALE GHERDËINA 7 è firmata da Adam Budak, che dopo le due precedenti edizioni (“From Here to Eternity” nel 2016 e “Writing the Mountains” nel 2018, conclude quest’anno la serie di questi tre ambiziosi progetti che hanno conferito rilievo internazionale all’intera manifestazione. Quest’anno la Biennale si terrà dall’8 agosto al 20 ottobre in queste sedi: centro di Ortisei (BZ); sala espositiva Luis Trenker, via Rezia 1, Ortisei; Hotel Ladinia, p.zza S. Antonio, Ortisei; Maso Pilat, via Minert, Ortisei; centro di Selva di Val Gardena; più una serie di eventi collaterali che saranno messi a disposizione in streaming. Questo l’elenco degli artisti invitati: Agnieszka Brzeżanska, Brave New Alps, Carlos Bunga, Pavel Büchler, Josef Dabernig, Aron Demetz, Habima Fuchs, Henrik Håkansson, Petrit Halilaj e Alvaro Urbano, Ingrid Hora, Paolo Icaro, Hans Josephson, Lang/Baumann, Tonico Lemos Auad, Kris Lemsalu, Sharon Lockhart, Myfanwy Macleod, Antje Majewski (con P.Althamer, A.Diouf, C.Edefalk, P.Freisler, G.Prugger), Marcello Maloberti, Franz Josef Noflaner, Paulina Ołowska, Pakui Hardware, Maria Papadimitriou, Hermann Josef Runggaldier, Marinella Senatore, Paloma Varga Weisz.
Il progetto di questa settima edizione della Biennale Gherdëina si fonda sul titolo “A breath? A name? The ways of worldmaking” (Un respiro? Un nome? Come realizzare nuovi mondi), e vede una significativa svolta poetica nei confronti delle esigenze vitali fondamentali dell’interazione umana, quali l’atto del respirare e la volontà di dare un nome agli oggetti. Focus della Biennale saranno pertanto il significato e la consapevolezza della rilevanza socio-politica nel processo di creazione del mondo (“Worldmaking”), il fattore dinamico all’interno di questo processo, ma anche il principio di resilienza che la cultura e la natura possono garantire. Si tratta di un processo di emancipazione che tiene conto in modo responsabile e lungimirante dell’unicità storica del luogo, che qui si è sviluppato in una visione matura e coraggiosa del futuro.
Ma il tutto, al di là delle intenzioni iniziali di questo complesso e coraggioso progetto curatoriale, va anche visto come un segno di speranza dopo mesi di sofferenza causati dall’epidemia mondiale di Covid-19 e che al momento bisogna dire che non è per nulla estinta!
La Biennale Gherdëina è organizzata dall’associazione “Zënza Sëida”. Il progetto è sostenuto e finanziato dalla Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, dalla Provincia Autonoma di Bolzano, dai Comuni della Val Gardena, dall’Associazione Turistica della Val Gardena, dalla Fondazione Cassa di Risparmio dell’Alto Adige, da aziende private e dagli Amici della Biennale.
Info:
Biennale Gherdëina 7
08.08 – 20.10.2020
Val Gardena, Dolomiti
Zënza Sëida VFG
Pontives 8
39046 Ortisei, BZ
press@biennalegherdeina.it
+39 366 150 0243
Marzia Migliora, Senza titolo # 4, from the series Fil de sëida, 2016. Ph. Simon Perathoner., courtesy of the artist and Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Agnieszka Polska, The Talking Mountain, 2015, from Biennale Gherdëina VI. Video, 9’46”. Ph. Simon Perathoner, courtesy Zak Branicka Galerie, Berlin
Sharon Lockhart, Pine Flat, 2005 16 mm film (color/sound) duration: 137 minutes (frame enlargement). © Sharon Lockhart, 2005 Courtesy the artist, neugerriemschneider, Berlin and Gladstone Gallery, New York and Brussels. Opera esposta alla BIENNALE GHERDËINA 7
Pakui Hardware, Thrivers, 2019 (from the series Thrivers). Glass, leather, silicone, chia seeds, metal stands, led lamps, polyurethane filter foam, 210 x 102 x 78 cm. Courtesy of the artist/s and carlier | gebauer, Berlin / Madrid. Opera esposta alla BIENNALE GHERDËINA 7
Fernando Sanchez, Nagelmann, 2016, from Biennale Gherdëina VI. Wood, 250 x 250 x 100 cm. Ph. Simon Perathoner
È direttore editoriale di Juliet art magazine.
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