Presso la CRAG Gallery di Torino, Giacomo Modolo (1988), presenta Blaze, mostra personale dove espone una serie di lavori frutto di un lungo periodo di riflessione sulla sua pratica pittorica. Per l’occasione ho avuto modo di confrontarmi con l’artista facendomi raccontare le peculiarità della sua ricerca attuale.
Giacomo Modolo: Tutto si consuma in una specie di rito purificatorio. Tra le fiamme e i fumi psichedelici le immagini bruciano e si rigenerano nel continuo ricambio di linee, volto a dare forma alla tessitura di una trama. Decorazione e gesto creano immaginari iconici, quasi manifesti grafici dalle fattezze fluide, teatrali e dichiaratamente illustrative. Ed è in questo rituale che sono gettate nel fuoco le bandiere, gli animali feroci e le relazioni, ovvero tutto quello che si fa simbolo delle mie certezze quotidiane, come il senso di appartenenza a qualcosa o a qualcuno. Blaze non è un ciclo pittorico. Utilizzando termini musicali, a me più amichevoli, non si tratta di un album completo ma, piuttosto, di una “demo” di pochi brani: scritti nel mezzo di una carriera già avviata e impegnati a tracciare una pagina, seppur sperimentale, di cambiamento (estetico e spirituale).
Domenico Russo: Il fatto che tu abbia evocato le fiamme di un rito purificatore accende in me la speranza di un’arte che ferisce il mondo. Le ferite sono i segni provocati dallo strumento sacrificale, un grande incendio psichedelico che hai appiccato in questa serie, Blaze, e che cambia gli assetti della forma a cui mi avevi abituato. È bello che tu la racconti come un demo musicale. Pochi brani in mezzo a una carriera. Anche la musica cos’è se non la manifestazione di una sostanza dalle potenzialità trascendentali?! L’animale. Il rito. L’arte. Pensavo. L’altra sera a Reggio Emilia indossavi un giubbetto di jeans chiaro con la sagoma di un felino, simile a una tigre di quelle che dipingi. L’anima interna di paillettes brillanti scintillava sulla tua schiena. È l’animale che, in qualche modo, squarcia il presente urbano e ci ricongiunge al mondo. Ne basta il simbolo, a volte. La bandiera è invece il segno coattivo della nostra presenza sul mondo. Un altro tipo di simbolo. Il primo provoca un movimento inclusivo, che ci inserisce. Siamo noi che entriamo nel mondo attraverso l’animale. Il secondo segna un’occupazione. Noi sul mondo. L’animale può essere la pittura che ci ricongiunge col reale. Entrambi i simboli li hai imbevuti nel liquido sottile della forma, estraendo da essi una testimonianza primordiale e poi il cambio di colori e gli accostamenti forti sono sorprendenti. Chissà cosa è diventata la pittura, questo animale imprevedibile, durante le fasi in cui le figure sfiammavano sventolando su icone troppo umane. Quando precisamente si è accesa in te la forza rigeneratrice della pittura, quella che dicevo essere in grado di ferire, di squarciare il reale? Se hai un modo per descrivere come hai sviscerato queste figure, fino a espellerne le ridondanze storiche (bandiere, animali diventano altro), per favore fammelo presente. I termini del paesaggio, che tu conosci bene, avendoli sperimentati fino al midollo nei lavori più gestuali, si sono modificati, stilizzati (non so se è la parola corretta), hanno, in breve, trovato stabilità variando maggiormente verso la luce; e continuo a vedere una rottura. Una rottura con una parte della tua produzione precedente. Com’è accaduto questo? Quali movimenti si sono aggiunti o sono scomparsi dal tuo agire solito durante questa produzione?
GM: Il paesaggio che ho racchiuso in una sorta di spin-off dedicato alla ricerca e alla sperimentazione della materia, per me si era esaurito. Sparire (o green cold river) è stato il ciclo più cinico e freddo che abbia mai dipinto, seppur quasi astratto e silenzioso. In poco tempo si è preso tutto e mi ha lasciato molto. È stato un bene che Karin e Betta non abbiano organizzato una personale in quel periodo e che quella serie di quadri verdi restino fluttuanti in un uno spazio temporale indefinito, a cavallo della pandemia. Blaze recupera un linguaggio illustrativo interrotto da una sbronza lunga due anni e mezzo, strafatta di pittura tecnica e intimista, di cose brutte della vita e un lungo periodo di non produzione. Ora torno al teatro. Nasco illustratore e so che non posso sedare la mia attrazione pop. Che siano bestie, bandiere o fiamme, tutto rientra nell’immagine di uno stemma, quasi da tifoseria… c’è del folklore. Si tratta di rendere icona un evento, come l’uccellino finito schiacciato sotto la zampa della tigre di Sacrifice.
DR: Nell’opera Sacrifice l’azione si sofferma su sé stessa, mentre si assottiglia e si libera dal superfluo. L’evento diventa icona. È dal tuo passato “underground”, se così si può dire, che afferri i ricordi per vitalizzare questa vena illustrativa e pop? Mi piacerebbe approfondire i punti in comune con il linguaggio dei manifesti. Manifesti che, se ben ricordo, erano principalmente rappresentativi della scena musicale punk, è giusto?
GM: Fin da ragazzetto sono sempre stato affascinato dalla grafica e ho iniziato a disegnare illustrando manifesti di concerti, dischi e t-shirt per una frangia musicale legata all’underground. In quel contesto il concetto di autoproduzione era forte e sfruttavo mezzi poverissimi come fotocopie, collage e disegno a mano per creare un immaginario aggressivo ma razionale. Quel tipo di estetica ha contaminato fortemente le mie inclinazioni pittoriche. Mi interessa tuttora l’impaginazione nel quadro, dove la libertà di un gesto viene controllata e confezionata in maniera quasi ossessiva. Di fatto all’Accademia di Belle Arti di Venezia non ho frequentato il corso di pittura, ma quello di decorazione pittorica, dove le contaminazioni erano tra le più svariate, a partire dai materiali. Credo che l’impostazione da manifesto di cui parli sia riemersa in questo periodo particolarmente nei forti contrasti e nella banalizzazione forzata di certe forme. Ho utilizzato immagini dichiaratamente 2D, come se fossero sticker di carta, ritagliati e sovrapposti. È un atteggiamento quasi ironico, che sto ancora maturando.
DR: Quando prima parlavo della tecnica non pensavo esclusivamente alla gestione dello spazio e alla distribuzione del colore, ma anche al modo in cui questo pare abbia reagito a un materiale insolito: in alcuni punti c’è un effetto acquerellato che non riesco a spiegarmi facilmente. Puoi darmi maggiori dettagli della tecnica con cui hai lavorato?
GM: Tutti i dipinti di questa serie sono stati realizzati su tessuto non trattato, cotone grezzo. È questo materiale che spesso ha veicolato la creazione delle forme. La tela, assorbendo il colore all’acqua in maniera irregolare, crea delle macchie dilatate dal perimetro mangiato e quasi bruciato. Si tratta di un margine non calcolato, inedito, esclusivamente dettato dalla relazione tra colore molto diluito e trama del tessuto. Questo passaggio mi ha sorpreso e, utilizzando tinte brillanti, ho potuto giocare con le trasparenze. In talune parti la superficie è priva di spessore, risulta acquerellata e valorizza il cotone.
DR: Il colore dirompe luminoso con forza visionaria, in qualche modo rivela appassionatamente la tua essenza vitale. Sei ben presente tra le foreste 2D, le tigri e le fiamme ti fan compagnia in mezzo a incredibili giochi tonali, dove appaiono anche due silenziose tele con figure umane: Magic Smoke e Kid with a wood gun. Come nascono e come si collocano nell’universo di Blaze?
GM: Sono guardiani di questo carnevale. La donna di Magic Smoke è un tributo a Larry Clark e al suo primo libro fotografico, Tulsa. Sono tele più istintive e lavorate senza ripensamenti.
DR: Tu lo chiami carnevale, il tripudio di colori fantastici, questa giungla onirica di un io silenzioso profondamente energico. Al tempo stesso, è la manifestazione vibrante di una pittura in grado di affermare il presente, di frazionarsi in una festa di colori, simboli e icone rendendo il mondo fisico in cui l’umanità è stata scaraventata un gioco apparentemente piacevole, in cui immergersi, perdersi e infine riconoscersi.
Info:
Giacomo Modolo. Blaze
27/10/2022 – 26/11/2022
CRAG Chiono Reisova Art Gallery (Torino)
www.cragallery.com
Domenico Russo, curatore e critico d’arte, rivolge il suo impegno alla ricerca delle nuove tendenze con uno sguardo particolare rivolto alle modalità con cui l’arte contemporanea si connette e interagisce con altri ambiti, convinto che essa sia una sensibile verità attraverso cui leggere il tempo che vive.
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