Coinvolgere lo spettatore all’interno di una parte rimossa della memoria storica e civile, sottrarre gli eventi all’irrimediabile limbo della dimenticanza. Le due priorità nel percorso artistico di Francesco Arena sono dichiaratamente ambiziose. E quasi utopiche. Al centro della poetica del trentanovenne artista pugliese, recentemente in mostra a Londra, Madrid e New York (e dal 17 novembre a Napoli presso lo Spazio Trisorio), ci sono eventi che hanno costituito un trauma assopito per la collettività. Arena li seleziona, raccoglie e colleziona con l’intento di rimetterli in gioco, piuttosto che come monumenti, come “casi aperti” su cui bisogna tornare a riflettere.
Così avviene, ad esempio, per la sua installazione del 2004: 3,24 metri quadrati, dove l’artista ripercorre il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, mediante un’opera che mescola iperrealismo, arte povera e minimale. Arena ricostruisce, secondo le dimensioni reali a cui il titolo allude, la cella di via Montalcini, l’appartamento romano in cui Moro fu tenuto prigioniero per 55 giorni, fino alla sua morte. L’individuale e il collettivo, il passato personale e la Storia vengono fusi insieme per creare un’unica dimensione in cui concentrazione, geometria e solidità diventano i cardini di una dimensione metaforica storico-personale.
Altre opere richiamano l’attenzione su punti cruciali del Novecento quali, ad esempio, il comunismo, meditato nel suo aspetto storico e antropologico tramite le costruzioni con vari materiali della serie Falce e martello (circa 130 pezzi costruiti tra il 2007 e il 2008), la morte dell’anarchico Pinelli. E, infine, Genova (foto di gruppo), in cui Arena, partendo dalla testimonianza fotografica ufficiale del gruppo dei dieci leader presenti al G8 di Genova del 2001, realizza in fango di marmo dieci forme a base quadrata di 40×40 cm e altezza varia (da 0,5 cm a 22 cm). “Le forme – ha dichiarato lo stesso Arena – sono concepite immaginando Carlo Giuliani vivo: se solo potesse salirvi, potrebbe guardare negli occhi ogni singolo capo di Stato”.
Qual è la ragione più profonda che ti ha spinto ad approfondire tematiche storiche nel tuo percorso d’artista?
Tutto è venuto un po’ per caso. Ogni artista ha una sua ossessione e, alla lunga, quest’ossessione domina il lavoro. O meglio, il lavoro è un modo per dominare l’ossessione. La mia prima opera, 3,24 mq, si confrontava con un “fatto storico”. Solo in seguito mi sono reso conto di quella che invece è diventata la tematica che lega tutta la mia produzione: lo spazio inteso come luogo fisico nel quale gli avvenimenti accadono e gli uomini si muovono. Ho cercato di addomesticare questi luoghi per poi avvicinarmi a luoghi sempre più familiari allo scopo di mischiarli ed in un certo senso “sporcarli” con la storia collettiva.
“Ri-scoprire” la Storia per comprendere l’attualità: quanto è importante questo aspetto nella tua ricerca?
Conoscere il passato per capire il presente mi sembra che fosse il sottotitolo di qualche trasmissione televisiva di quand’ero bambino o forse era il sottotitolo dell’enciclopedia di casa dei miei. Fondamentalmente l’idea della Storia come chiave per l’attualità è corretta anche se la Storia stessa è estremamente complessa piena di sottostorie e di appendici che nessuno legge perché apparentemente inutili. Spesso è a partire da queste sottostorie che nasce un lavoro, in particolare dalla mia sottostoria, che è quella che mi illudo di conoscere meglio. La Storia non è poi così mutevole, anzi è spaventosamente uguale a sé stessa e questo rende il suo ciclico riproporsi la chiara prova che l’uomo è un essere fantastico capace di costruire e distruggere qualunque cosa; è in grado di inventare Dio per poter dare la colpa della sua dabbenaggine a qualcun altro.
Esiste nelle tue opere una volontà reale di cambiamento del passato/presente?
Le mie opere cambiano me, a volte un’opera mi fa cambiare completamente idea su una cosa. Capire la realtà dimensionale di qualcosa permette di percepirla diversamente, immaginare una distanza percorsa da altre persone visualizzando una propria distanza in rapporto a quella percorsa dall’altro, può cambiare qualcosa e lasciarci intuire che, spesso, le dinamiche che spingono gli uomini a comportarsi in un dato modo sono molto più antiche e condivisibili di quanto ci potremmo aspettare.
Guido Luciani
Francesco Arena, Corridoio, 2012
Francesco Arena, Genova (foto di gruppo), 2012
Francesco Arena, Falce e Martello, 2008/2009
Francesco Arena, 3,24 mq, 2004
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