Cecilia Mentasti (1993) è un’artista visiva e art-worker. Ha studiato Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e nel 2019 ha co-fondato, a Milano, lo spazio no-profit BRACE BRACE. La sua ricerca è incentrata sugli elementi marginalizzati all’interno di vari sistemi di riferimento – molto spesso in quello dell’arte – con un’attenzione alla relazione tra regole e cura. Alla sua pratica artistica è affiancato il lavoro di ricerca e approfondimento anche presso luoghi istituzionali come il Centre For Films and Ethics della Queen Mary University of London (2018). Tra le ultime mostre ci sono la personale have you ever been / where you already are?// a BRACE BRACE e Safari (not the exception but the rule) per Video Sound Art 2021 presso il Museo di Storia Naturale di Milano.
Edoardo Durante: Mi piacerebbe cominciare questa conversazione chiedendoti come è nata la serie Protect What You Love…
Cecilia Mentasti: Sono sempre stata interessata alla questione della cura. Le prime casse che ho realizzato erano destinate alle opere di Maria Cristina Galli e Maurizio Arcangeli, due artisti e miei professori durante gli studi accademici. In questo lavoro entra anche qualche elemento autobiografico: negli ultimi anni mi sono interfacciata molto con il retroscena del mondo dell’arte; le casse a un certo punto hanno colto la mia attenzione per la loro artisticità latente. Mi interessa come la cassa di trasporto diventi sia un dispositivo sia un oggetto di cura.
Con Waiting for the Miraculous la situazione cambia, giusto?
In Waiting for the Miraculous ho voluto realizzare una cassa per un’opera molto importante per me: In search of the miraculous (1974) dell’artista olandese Bas Jan Ader. L’ultima opera dell’artista, durante la quale svanisce nel tentativo di attraversare l’Oceano Atlantico con una barca a vela per tornare in Olanda dagli Stati Uniti, dove viveva. La conseguenza naturale di questo lavoro è una riflessione sulla conservazione e sulla cura nei confronti di una performance; la prima cosa che mi sono chiesta è stata: come inscatolo una performance?
Con una performance…
Esattamente…
E l’hai realizzata?
Sì. L’azione in sé è piuttosto semplice: fisso il mare finché il mio sguardo lo può sostenere. Waiting for the Miracolous è anche il titolo dell’opera, uno specchio del lavoro di Bas Jan Ader che prende i connotati di una riflessione sull’attesa dell’impossibile. Nel momento in cui distolgo lo sguardo, l’opera è da considerarsi conclusa per quel giorno. Cerco di resistere il più possibile; fino ad ora la durata media si aggira tra le cinque e le sette ore giornaliere.
Il concetto dell’immaginazione ritorna anche nell’opera The Whale…
Sì, mi sono chiesta quali fossero gli elementi fondanti di un’opera che di solito rimangono nascosti e ho pensato all’immaginazione, cercando di renderla l’oggetto dell’opera e non solo uno stadio del processo. L’opera si chiama The Whale ed è una balena immaginaria, lunga ventisette metri. Può sembrare strano, ma in realtà non è semplice immaginare un oggetto così grande e ho dovuto allenarmi per farlo. Ho iniziato a costruire dei riferimenti visivi che aiutassero il processo immaginativo. Mi sono servita di diversi metodi, tra cui automobili parcheggiate in fila, un metro disteso sulla superficie ghiacciata di un laghetto, la linea bianca di un campo da calcio, sempre per la lunghezza complessiva di ventisette metri. Prossimamente realizzerò quest’opera a Piacenza, in una piazza dove esporrò come riferimento sei automobili parcheggiate in fila. Mi affascina l’idea di portare lo spettatore a un esercizio collettivo di immaginazione in cui ognuno si rappresenta mentalmente la propria balena.
Ti andrebbe di dirmi qualcosa riguardo i tuoi piani di fuga? Anche in queste opere è presente il rapporto con il pubblico, ad esempio quando si accorgono che le piantine in realtà non funzionano…
Quando partecipo a una collettiva, ibrido la mappa di sala della mostra con un piano di fuga disegnato da me che interagisce anche con le opere presenti, che diventano elementi per una possibile salvezza anche se, molto spesso, le mie mappe sono forvianti, non “funzionano”. Quello dei piani di fuga è un tema che mi interessa particolarmente e, negli ultimi anni, ha preso diverse forme, tutte racchiuse dal titolo Ovunque ma non qui. Come dici tu, il rapporto con il pubblico è essenziale; questa famiglia di lavori porta inevitabilmente lo spettatore a contemplare la possibilità di un comportamento atipico all’interno dello spazio.
Perciò se parti dalla disposizione delle opere altrui, realizzi i tuoi piani pochi attimi prima del vernissage…
Esattamente. Tutto di corsa all’ultimo momento. (Ride) Mi interessa prendere un elemento preesistente e trasformarlo, cambiarne leggermente il significato. Una delle ragioni per cui sono interessata ai piani di fuga è che all’interno di un museo sono dei disegni incorniciati, hanno tutte le carte in regola per essere opere anche se non lo sono. Il mio lavoro spesso si occupa di fare uno scarto minimo e spostare questa condizione. Quando ho realizzato Waiting for the Miraculous, per la maggior parte delle persone ero soltanto una ragazza che fissa il mare, così come Bas Jan Ader era un uomo in barca a vela. Non sono interessata al risultato finale, il mio lavoro probabilmente non è molto riconoscibile…
Non sono così d’accordo… Non mi è così chiaro l’aspetto della cura. Dal momento che inserisci un’opera all’interno di una tua cassa, questa diventa una nuova installazione?
Non esattamente. Le casse stesse sono opere anche se da sole non funzionerebbero. Le realizzo io a mano, una alla volta.
Il lavoro in studio è una componente importante perciò…
La dimensione dello studio mi piace molto, anche se a volte semplicemente è un luogo dove sto senza fare niente.
Mi stavi dicendo riguardo la serie Protect What You Love?
Le casse prima di tutto funzionano in quanto tali. In un secondo momento mi concedo di aggiungere qualcosa per creare un rapporto inedito con l’opera di cui si prendono cura, una sorta di storia d’amore tra le due metà. La cassa viene poi donata all’artista, che è sempre qualcuno con cui ho un rapporto stretto, e che può decidere di farne ciò che vuole. Quando mi sono trovata a ragionare su un’opera di Francesca Finotti, At the end of the day, honey and milk – una foto di un gruppo di capre viste attraverso una lente a contatto – ho realizzato una cassa con all’interno isolante acustico, in modo tale che non si sentisse il belato.
E sempre con Francesca Finotti e Francesco Paleari hai dato vita a Brace Brace. Com’è nato?
In realtà è nato un po’ per caso. Avevamo la necessità di un luogo dove lavorare, dove poter sviluppare le nostre idee.
Lo spazio è poi diventato anche uno spazio espositivo.
Lo spazio era molto bello e quindi abbiamo sentito la necessità di farci la prima mostra, sempre di Francesca Finotti. Ci siamo divertiti ed è diventato quasi un project space, a cui si sono aggiunti anche Flavia Albu, Elisa di Nofa e Salvatore S. Melis. Collaboriamo con artisti che ci interessano, alla cui pratica ci sentiamo in qualche modo legati. È uno scambio continuo che ci permette di rimanere indipendenti e no-profit, supportando progetti molto diversi tra loro e non vincolati dalle dinamiche economiche.
Il 19 novembre hai inaugurato la personale 18 artworks that couldn’t fit in a window, a cura di co-atto, mi diresti qualcosa in più a riguardo?
18 artworks that couldn’t fit in a window è un progetto che ho pensato per gli spazi di co_atto molto prima che esistesse. co_atto è composto da 18 vetrine in un grande corridoio del passante ferroviario di Porta Garibaldi a Milano e lo spazio mi ha affascinata fin da subito perché, all’epoca, mi sono resa conto che molte delle mie opere non ci sarebbero potute entrare. Poi è nato co_atto e qualcuno, immagino Vincenzo Argentieri con cui all’epoca avevo condiviso l’idea, ha parlato loro del progetto.
L’idea da cui sono partita è molto semplice: immaginare delle opere troppo grandi per entrare in vetrina e che, dunque, dovessero essere tagliate e modificate per poter entrare nello spazio espositivo. Per questo progetto ho invitato 12 artisti a prestarmi delle opere, su cui sono intervenuta in diversi modi in altrettante performances.
Mi ha sorpreso in particolar modo l’azione dei tagli ai fini espositivi. Ti andrebbe di parlarmene approfondendo il concetto di cura conflittuale?
Per capire la questione della cura conflittuale credo che un elemento cardine sia la documentazione fotografica del progetto, fatta da Carlos Manuel Gasparotto, una delle poche persone presenti alle performances. Tramite il suo sguardo emerge come la mia attitudine sia liminale tra un’azione radicale come quella di intervenire sull’opera e il dialogo tra me e l’opera, la ricerca della modalità migliore per effettuare questo intervento. Il risultato sono delle immagini molto intime, da cui emerge una forma di cura estrema ma che mi interessa molto.
Credo che il lavoro alla fine si componga di questa duplice essenza: la documentazione del taglio e l’opera tagliata, che finalmente entra nella vetrina, lasciando emergere un rapporto di scambio molto profondo tra me e l’opera.
Tagliare le opere è stata un’esperienza, emotiva e fisica, molto forte.
Edoardo Durante
Info:
Cecilia Mentasti, The Whale, 2016 – in corso, documentazione fotografica da azione performativa, courtesy Cecilia Mentasti
Cecilia Mentasti, Ovunque ma non qui (vol.1), 2020, pittura a terra, installazione ambientale, crediti fotografici Francesco Paleari, courtesy Francesco Paleari
Cecilia Mentasti, Protect what you love, 2021, casse per Francesca Finotti, Jacopo Rinaldi, Ginevra Dolcemare, installation view per have you ever been/ where you already are?//. presso BRACE BRACE, Milano, crediti fotografici Francesco Paleari, courtesy BRACE BRACE
Cecilia Mentasti, Ovunque ma non qui, 2021, installation view per have you ever been/ where you already are?//. presso BRACE BRACE, Milano, crediti fotografici Francesco Paleari, courtesy BRACE BRACE
Cecilia Mentasti,18 artworks that couldn’t fit in a window, 2021, documentazione delle azioni performative in occasione della mostra, crediti fotografici Carlos Manuel Gasparotto, courtesy Carlos Manuel Gasparotto
Cecilia Mentasti,18 artworks that couldn’t fit in a window, 2021, documentazione delle azioni performative in occasione della mostra, crediti fotografici Carlos Manuel Gasparotto, courtesy Carlos Manuel Gasparotto
Edoardo Durante è un giovane curatore attento al panorama artistico contemporaneo, che ha sviluppato un particolare interesse nei confronti della video e digital art e delle pratiche che intrecciano scienza, arte e tecnologia. È laureato in Conservazione dei Beni Culturali e specializzato in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.
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