La mostra Fuori alla Quadriennale di Roma è rimasta aperta solo pochi giorni al Palazzo delle Esposizioni a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia. In attesa di poter nuovamente accedere agli spazi museali, abbiamo incontrato Chiara Camoni, una dei 43 artisti invitati dai curatori Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, e le abbiamo chiesto di raccontare il suo progetto.
“Abbiamo scelto di esporre due opere rappresentative, Kabira (2019) e Senza titolo (Una tenda), 2019, entrambe recenti ma non realizzate appositamente per la Quadriennale. Untitled, 2019, è una struttura in ottone, una tenda che accoglie un gruppo di sete realizzate con la tecnica della stampa vegetale. Per me, queste sete sono come sindoni, perché le foglie, i fiori e le erbe che utilizzo non lasciano un’impronta attraverso l’aggiunta di colore ma rilasciano nel tessuto i loro stessi succhi, ovvero un’impronta diretta dell’elemento vegetale. In questo processo, si formano delle figure antropomorfe, degli strani personaggi, degli spiritelli come li definisco io, emanazione di un luogo preciso. Per il lavoro in Quadriennale, i vegetali che ho usato sono stati raccolti nel mio giardino e nel bosco intorno. Sono quindi l’emanazione di un paesaggio come se cercassi le presenze di un luogo specifico. Questa metodologia è stata rielaborata e riproposta in laboratori e workshop ambientati in un luogo specifico. Nell’ultimo caso è stata alla GAM di Torino dove ho tenuto un laboratorio collettivo in cui siamo andati alla confluenza dei due fiumi il Po e il Dora Riparia, a cercare quali erano le figure nascoste in quel luogo. Per me, è tutto molto magico, legato alla meraviglia. Si comincia dalla raccolta in cui si possono ritrovare ad esempio, dei fiori che non si trovavano nell’anno precedente. E allo stesso tempo lo spazio diventa connotato, conosciuto. Non è più uno spazio neutro, bensì familiare. Si continua disponendo queste foglie sul tessuto solo su una metà. Come si può notare dall’opera le figure sono speculari sebbene la foglia non lasci esattamente la stessa impronta da un lato e dall’altro. L’occhio conosce la simmetria e simmetria è già corpo. Ne emergono delle forme bizzarre, anche astratte. Vista una forma, ne cerco un’altra, una magari con più braccia, altre con più protuberanze. È una tradizione molto antica legata alla tintura naturale anche se il modo in cui io opero è più casuale. Per me ha valore anche ciò che non funziona poiché la forma è determinata sia da ciò che compare e sia da ciò che lascia un vuoto. Quando si aprono i tessuti, accade “la meraviglia”, anche per me stessa che li ho realizzati, e credo sia questo il motore del mio lavoro. Queste figure poi, sono organizzate in cerchio e diventano scultura ovvero uno spazio-luogo, uno spazio che si può vedere da fuori ma in cui si può anche entrare. Le figure fanno girotondo, è giocoso ma anche minaccioso, ci si ritrova accerchiati. Questa pratica è andata consolidandosi negli anni, e spesso è connotata dalla presenza e dalla relazione con altre persone. A quel punto il lavoro diventa firmato da me a dai partecipanti di quel laboratorio, testimoniananza di quel luogo e di quella situazione precisi.
Kabira è sempre un’opera che nasce come lavoro corale, il risultato di un laboratorio svolto al Museo Carlo Zauli a Faenza nell’arco di un’estate. In questo caso, non c’era un’idea precisa ma ho proposto alcuni elementi legati all’idea di difficoltà. Il pretesto era il cavallo e in particolare un mio cavallo che si chiamava Kabira, un animale che mi aveva messo di fronte alla difficoltà della relazione, qualcosa che non potevo completamente gestire. In arte contemporanea, il cavallo può essere inteso come un tabù, ci può far pensare al kitsch o a un’idea di monumento forse superata. A partire da questo soggetto scomodo, abbiamo aperto una discussione sull’idea di monumento oggi, cosa che un po’ questo lavoro vuole raggiungere. Questo lavoro ha per me qualcosa di monumentale, non solo nelle dimensioni. Abbiamo impiegato una terra nera del Belgio che usava Carlo Zauli negli anni ’80 e che si trovava ancora nei sotterranei del museo. Siamo scesi in questi sotteranei che non avevano luce e ognuno ha preso un pane di creta. È stata come la discesa in un mondo ctonio, per prelevare una materia ancora informe. Durante il seminario ho proposto delle letture, come spesso accade si leggono insieme brani di libri. In questo caso, ho introdotto il Maestro ignorante (1987) di Jacques Ranciere in cui si presenta il caso di un insegnante, il signor Jacotot, che deve insegnare francese a degli studenti che parlano solo olandese e, pur mancando una lingua di mediazione, gli studenti imparano. Nel momento in cui propongo un workshop infatti, mi pongo sempre la questione di ciò che si può realmente insegnare, se ci sono dei modi che lo consentono. Da un lato quindi, è venuto costruendosi un dibattito con i partecipanti, dall’altro invece, c’è stato il lavoro pratico, un lavoro partito dalla copia dal vero. Siamo usciti a disegnare i cavalli e successivamente abbiamo iniziato a modellare delle forme molto semplici che permettevano alle mani di lavorare mentre si ragionava. Per me c’è un particolare modo di pensare che avviene quando il cervello è impegnato in una cosa, come se si ragionasse più liberi e in cui è più facile arrivare all’intimità. Aggiungo un’altra considerazione, citando Pensare in presenza, un libro di Chiara Zamboni, recentemente oggetto delle nostre letture: c’è uno spazio che si crea tra le persone che è una terza cosa, uno spazio inconscio, un terzo elemento, è questo pensare in presenza dell’altro che è una cosa speciale, diversa da quando si pensa da soli. Kabira è riuscita a tenere insieme tutti questi diversi piani, di difficoltà e di bellezza. Il cavallo ha preso forma in questa figura che è comunque un luogo, perché al suo interno ha uno spazio vuoto come una tenda, un nascondiglio.
Senza titolo (Una tenda) e Kabira sono due opere che hanno avuto un processo importante, hanno raggiunto una forma, una forma risolta, autosufficiente. Non basta un buon presupposto per fare l’opera, perché all’opera si chiede anche qualcos’altro, ovvero la sua autosufficienza.
Poi c’è anche un dopo, ciò che avviene successivamente, la vita dell’opera che prosegue, modificandosi. Nella tenda ci puoi entrare, la puoi usare, e al cavallo a ogni presentazione si aggiunge qualche collana, qualche fiore, un po’ come quando in certe situazioni religiose c’è un accumulo progressivo. In questo caso, in Quadriennale, il cavallo è vestito di fiorellini secchi come i muri antichi delle rovine che ogni tanto si incontrano a Roma. In questi due lavori si incrociavano varie linee tematiche che i curatori hanno individuato per questa Quadriennale, che hanno a che fare con un’idea di femminile e con quel qualcosa di “incommensurabile” e di non facilmente circoscrivibile. Queste due opere parlano di un’ambiguità, di una dimensione che in parte si può controllare e in parte no: l’opera ad un certo punto si manifesta per sua volontà, mi verrebbe da dire.”
Info:
Chiara Camoni, 17a Quadriennale, 2020. Palazzo delle Esposizioni, Roma Courtesy SpazioA, Pistoia
Chiara Camoni, Kabira, 2019, terracotta nera, legno patinato di verderame, metallo, cm 250 x 250 x 90 (dimensioni variabili) Courtesy SpazioA, Pistoia Foto di Angela Grigolato
Chiara Camoni, Senza titolo (una tenda), 2019, ottone, stampa vegetale su seta, cm 183 x cm Ø 211, dettaglio. Collezione Silvia Fiorucci-Roman, Principato di Monaco Foto di Camilla Maria Santini
Chiara Camoni con Camilla Maria Santini, La meraviglia, 2020, videoframe, 4′ 24” loop, Courtesy SpazioA, Pistoia
È interessata agli aspetti Visivi, Verbali e Testuali che intercorrono nelle Arti Moderne Contemporanee. Da studi storico-artistici presso l’Università Cà Foscari, Venezia, si è specializzata nella didattica e pratica curatoriale, presso lo IED, Roma, e Christie’s Londra. L’ambito della sua attività di ricerca si concentra sul tema della Luce dagli anni ’50 alle manifestazioni emergenti, considerando ontologicamente aspetti artistici, fenomenologici e d’innovazione visuale.
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