Fare proprio un volto senza cittadinanza, un corpo senza rispetto. Questo è il sentire che orienta la produzione di Zehra Doğan, artista e giornalista dei giorni nostri a cui la propria patria, la Turchia, ha negato ogni diritto di espressione. Per Zehra, tanto nel periodo di prigionia quanto in quello di successivo esilio europeo, l’unica arma espressiva della propria individualità rimane il corpo. Il corpo di cui si tratta, però, non è mai usato in contesti performativi o di spettacolarizzazione, bensì come fonte di materia pittorica. Si tratta di un corpo-strumento, uno strumento limitato e al contempo spinto al limite. Fino a gennaio 2025 la Prometeo Gallery di Milano presta il proprio spazio a un’esposizione animata dalla potenza dell’immedesimazione nel sentire di un altro, un altro-artista che fa dei propri artefatti il mezzo di questa così intima forma di comunicazione. Ida Pisani, curatrice e gallerista, seguendo questa linea guida riunisce in un’unica narrazione due artisti, differenti nel vissuto ma accomunati da una simile sensibilità: Zehra Doğan e Matteo Mauro.
Tra i materiali che danno forma alle opere dell’artista curda si riconoscono capelli, sangue mestruale e altre componenti organiche che contribuiscono a creare un linguaggio che, sfidando le convenzioni, afferma la specificità di un individuo che con la propria storia e attraverso le proprie cicatrici naviga un mondo fatto di identità negate ed esperienze di naufragi esistenziali. Questo condensato corporeo viene fatto interagire dalla giovane donna con oggetti di fortuna, come vesti, carte di giornale, tappeti o bugiardini di medicinali. Sorge così un rapporto formativo e creativo tra i resti di un corpo sofferente e i prodotti mondani, frammenti del quotidiano. Attraverso questo dialogo dissacrante tra materia organica e mondo Doğan anima «un intarsio che custodisce una memoria vivida anche nel limite dell’oblio» – si legge nell’introduzione critica alla mostra. Di fronte alle sue creazioni si intuisce l’idea di opera d’arte come memoria, nonché come rivendicazione di resistenza e autenticità, elementi che vengono ulteriormente rafforzati da racconti autografi presenti sul retro di alcune tele.
Di fronte ai lavori esposti l’osservatore è costretto a confrontarsi con i tabù imposti dalla società e a riconvertire il proprio sguardo da giudicante e scandalizzato ad aperto e compassionevole. La compassione qui torna ad avere un significato letterale: non più sinonimo di pietà e pena, ma condivisione di uno stesso sentire (con-pathos), ovvero del senso di vulnerabilità. Figure femminili ferite, prigioniere, creature mitologiche come Shamaran escono dal disegno dell’artista ipnotizzando lo spettatore, che si sente rapito da un paradossale connubio di sensazioni. Dalle opere, infatti, emerge un riferimento a una cultura ancestrale – originaria e sintetica nei tratti – ma al tempo stesso questo radicamento a una tradizione lontana viene tradito dall’inedita originalità dei materiali pittorici e dallo stile unico della loro fattrice. Tale paradosso guida a una profonda immedesimazione che va oltre il visibile e tocca le corde più intestine di chi si rapporta alle opere. Closed eyes can see indica, appunto, questo slancio verso un dialogo silenzioso e al di là delle tracce visibili con il destino di un altro, Zehra, e insieme inaugura un ideale «intuarsi» – riprendendo il gergo dantesco usato nello scritto introduttivo – tra l’artista curda e un suo collega a lei sconosciuto, Matteo Mauro.
Lo scultore italiano, coraggiosamente introdotto alla conversazione materica con Doğan, investe il proprio lavoro di una concezione della condizione umana simile a quella espressa dall’artista prigioniera. Più in particolare, l’umano si trova costretto in una sorta di oblio intuibile ma inimmaginabile – invisibile ai nostri occhi chiusi. La complessità del reale da cui deriva questo stato di oblio assume la forma di un dualismo nella scultura di Mauro: scissione e smembramento dell’unità (Dolce Metà), essere e non essere qualcosa o un’identità (To be or not to be), forma organica e amorfismo inorganico (Demiurge). Solo a occhi chiusi, in un linguaggio che trascende il visibile, si può accogliere la convivenza delle alterità e sempre a occhi chiusi si può fare esperienza di quell’empatia con l’universo – un complesso organico-inorganico, forma informale – di cui ognuno di noi è parte e il cui senso di appartenenza si dissolve in una «percezione condivisa dell’esistenza». Empatizzare – o intuarsi – con le sfaccettature della matrioska mondana e provare compassione nei confronti della prima fra le alterità, l’altro umano nostro simile, è il monito a cui l’arte di Doğan e di Mauro ci richiama, anche senza darcene chiara visione.
Info:
Zehra Doğan e Matteo Mauro. Closed eyes can see
15.11.2024 – 14.01.2025
Prometeo Gallery
Via G. Ventura, 6 – Milano (MI)
www.prometeogallery.com
Laureata magistrale in Filosofia all’Università degli Studi di Milano, città dove tuttora vive, si è specializzata in estetica e critica del contemporaneo. Frequentatrice del mondo dell’arte e dedita alla ricerca, crede nel potenziale dello sguardo interdisciplinare, che intreccia il pensiero critico, tipico della formazione filosofica, e il potere comunicativo dell’arte di dare forma all’identità in divenire del proprio tempo.
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