Il Pesce d’Oro è un progetto collettivo di ricerca permanente che opera attraverso i linguaggi interdisciplinari della scena contemporanea, dell’arte e artigianato. Il gruppo, Guidato da Samanta Cinquini (Mia) e Micaela Leonardi, si impegna a stimolare la creatività e l’espressione artistica come strumenti per la trasformazione e la ricerca di significato nella vita, nella relazione, nel quotidiano, nel piccolo che è infinitamente grande.
Alberto Ceresoli: Il Pesce d’Oro nasce nel 2016: una lettera rivolta ai giovani e distribuita attraverso i social chiamava tredici donne a prepararsi per la doratura. Non posso che iniziare da questo scambio domandandovi: che cos’è la doratura?
Samanta Cinquini (Mia) e Micaela Leonardi: La doratura è per noi una pratica, ed è parte di una storia: l’origine de Il Pesce d’Oro. Inizialmente nati per essere una performance, i nostri allenamenti non erano altro che una preparazione psico-fisica in vista di quell’evento. Col tempo, durante gli incontri, si sono aperti nuovi mondi e le pratiche si sono moltiplicate. La doratura è rimasta il mito fondativo del gruppo, tanto che la poetessa e artista Giulia Cosio ne ha tratto una favola. La nostra favola. Durante la pratica della doratura, prendiamo l’inutile e, attraverso il rito, lo trasformiamo in oggetto di lusso, in oggetto “sacro”. Lo scarto, la lisca, diventa così un oggetto di “culto”, una reliquia: una lisca ricoperta in foglia d’oro 24k seguendo la tradizione bizantina acquisisce un valore simbolico e, in parte, economico. La pratica della doratura è un processo collettivo rituale. Si può dire che la sono doratura i luoghi di presenza che esploriamo. La doratura, infatti, ha assunto significati diversi man mano che veniva praticata. Essa richiede preparazione, e prepararsi significa creare una distanza dal mondo ordinario, un mondo in cui percepiamo un’erosione del significato a cui ci stiamo pericolosamente abituando.
Sono trascorsi otto anni dalla nascita del collettivo. Che cosa rappresentava per voi Il Pesce d’Oro nel 2016 e che cosa rappresenta oggi?
Il viaggio con Il Pesce d’Oro è iniziato con l’idea di creare una performance, un’immagine concreta, ma si è trasformato in una ricerca continua, in un processo aperto e in evoluzione. Nel 2016, per molti, Il Pesce d’Oro è stato una risposta al bisogno di trovare un gruppo che si chiedesse: «Siamo umani, ma cosa facciamo con questa umanità?». Quell’apparente assurdità, come passare due ore a togliersi e rimettersi una camicia, era in realtà un’esplorazione profonda dell’essere umano, dei suoi limiti, delle sue virtù e delle sue vulnerabilità. Il lavoro creativo è sempre rivolto agli altri, al gruppo, e questo crea un passaggio essenziale: un ponte che ci spinge oltre la semplice espressione personale, permettendoci di immergerci in un processo di creazione condivisa con i nostri compagni di viaggio, chiunque essi siano. È un gioco che richiede coraggio, incoscienza e un atto di fede, sia nella guida sia nel processo. Oggi Il Pesce d’Oro è una comunità (aperta) che, attraverso la pratica artistica e performativa, cerca di costruire un’educazione estetica dell’uomo. Per molti di noi, i giorni del Pesce d’Oro sono appuntamenti segnati sul calendario, attorno ai quali ruota il resto della nostra vita. È possibile anche avvicinarsi al Pesce d’Oro e farne parte seguendo ritmi più saltuari. Infatti, se Il Pesce d’Oro è riuscito a compiere otto anni (e continuerà a crescere), lo si deve tanto a chi lo ha scelto come missione di vita, quanto a chi lo ha attraversato come una tappa del proprio cammino. Si tratta, sempre, di un atto di fede e di libertà.
Mi parlate delle vostre sessioni d’allenamento?
Ogni sessione è uno spazio-tempo condiviso, in cui il gruppo si muove seguendo regole che nascono e si adattano di continuo, come un canovaccio di esercizi preparato dalla direzione artistica e dal gruppo di allestimento. Questi esercizi non sono fini a sé stessi, ma offrono possibilità di improvvisazione, permettendo alle immagini, narrazioni e drammaturgie di emergere spontaneamente. Le sessioni durano da quattro a dieci ore, a seconda del tipo di lavoro e delle persone coinvolte. Possono essere momenti di esplorazione fisica, vocale, ritmica o drammaturgica, ma sempre con la libertà di stravolgere lo schema iniziale per seguire le intuizioni che emergono. Anche gli osservatori hanno un ruolo attivo, poiché il loro sguardo contribuisce alla creazione di uno spazio condiviso e di un luogo emotivo che tutti abitano. Nessuno sa esattamente dove porterà il lavoro, ma ciò che si costruisce diventa materiale per future esplorazioni, in un ciclo continuo di creazione collettiva. Durante un allenamento, tutti sono indispensabili. Ognuno può trovare il proprio posto, se lo desidera. Le possibilità di esplorazione sono infinite, a patto che il contesto, il tempo e il luogo siano propizi e che la guida lo consenta. Chi non partecipa attivamente lo fa in modo indiretto, riflettendo su aspetti come le luci e i loro effetti, la musica (spesso suonata dal vivo), gli abiti, le maschere e altrii dettagli. Ogni allenamento è unico: a volte si tratta di una situazione conviviale, come la volta in cui abbiamo preparato il pane, cuocendolo su un fornetto improvvisato e gustandolo insieme. Altre volte si riveste di un carattere più ‘sacro’ e il gioco assume un tono più serio. Non c’è bisogno di dichiararlo esplicitamente poiché si percepisce. Spesso affrontiamo temi che ci toccano in prima persona: la Guida seleziona questi argomenti con l’intento di far lavorare uno o più partecipanti in particolare. Quando le sessioni di allenamento si svolgono all’interno di una residenza, i membri della comunità ospitante spesso si uniscono a noi nel gioco, arrivando a influenzarlo e guidarlo. Così è successo, ad esempio, a Squillace, dove ci siamo ritrovati inaspettatamente a lavorare attorno alla figura della Madonna del Carmine. Le sessioni servono per esplorare, strutturare e a volte distruggere “stanze” condivise, intese come luoghi sia fisici sia emotivi.
Negli anni i vostri allenamenti hanno trovato casa in molti spazi della provincia di Bergamo: Upper Lab, Polaresco, Teatro di Loreto, Teatro Erbamil, Magus, l’Ex carcere di Sant’Agata. Dove siete ora? State cercando una residenza o siete nomadi per scelta?
Attualmente lavoriamo soprattutto nello spazio Colibrì del Centro Psicologia e Cambiamento di Bergamo, dove conserviamo i materiali. Stiamo anche lavorando nella Chiesa di Sant’Antonio a Fiobbio, di proprietà della famiglia Sugliani, acquistata dal Maestro incisore Caio Claudio Sugliani. Inoltre, siamo sempre aperti a considerare proposte di ospitalità e collaborazione. Il nomadismo rappresenta per noi una possibilità di apertura e scoperta, un modo per metterci alla prova e adattarci a condizioni spesso complesse, costringendoci a ricostruirci. Abbiamo dunque fatto della viandanza una virtù, che ci permette di esplorare condizioni di comodità e scomodità sempre diverse. Lo spazio è una componente essenziale delle nostre sessioni: non ne esiste uno giusto o uno sbagliato. Il Pesce d’Oro potrebbe fare una sessione di quattro ore intorno a una cabina telefonica o a un tombino, e andrebbe bene così. Tuttavia, c’è un grande sogno condiviso: avere una CASA, un’idea che ognuno immagina in modo diverso. Per costruire e conservare, serve una casa. Questo sogno propone un contesto ideale di lavoro, ma non può escludere la possibilità di muoverci e interfacciarci con realtà diverse. Una parte dei nostri ideali è legata al nomadismo, mentre un’irrinunciabile attitudine alla cura ci spinge a cercare una casa. Questi sono i due poli di una tensione in cui ci troviamo a vivere.
Come collettivo siete da sempre impegnati nella proposta di esperienze laboratoriali, nate talvolta dall’incontro con altri Enti e Associazioni (penso alla collaborazione con Orlando Festival). Mi piacerebbe confrontarmi con voi su moltissimi dei vostri progetti come “Il Laboratorio di Anatomia Poetica” o “COR-PUS”, ma nello spazio di questa breve intervista credo sia importante chiedervi di raccontarmi del “Laboratorio per il Padre”.
È forse il laboratorio più intimo che portiamo avanti e del quale “crediamo di saper parlare meno”. Il metodo rimane naturalmente lo stesso: è la nostra ricerca. Il “laboratorio del padre” è uno spazio di riflessione incarnata e collettiva sulle esperienze di paternità, considerate in tutta la loro complessità. È un tempo di ascolto e di espressione durante il quale possiamo lasciare scorrere le lacrime e il sudore, rimettere colori e segni sul nostro essere stati figli e/o padri attraverso tecniche provenienti dal mondo delle arti visive e della performance. Durante il laboratorio si svolgono le “missioni del Padre”. Ognuno di noi si è interrogato su un’azione che lo unisse al “Padre” e al “Paterno”. Una volta individuata l’azione, ci siamo impegnati a “riscriverla” affinché diventasse una Missione del presente da condividere con i compagni di viaggio. È un modo per salutare, onorare, riscrivere e testimoniare, mantenendo la leggerezza e la serietà di una “gita”, di una “tradizione” o persino di una festa. Siamo stati in montagna, abbiamo attraversato un rito funebre e costruiremo un gigantesco maiale di cartapesta che servirà da pignatta! (etc). Abbiamo, inoltre, chiesto ai partecipanti (tutti udenti) di scrivere una piccola drammaturgia affinché l’interprete Lis e Counselor gestaltica, Barbara Anzivino, potesse insegnare loro a tradurla nella Lingua dei Segni Italiana (LIS). Abbiamo chiesto a ciascuno di scrivere questo “mistero” indicibile e necessario per accomiatarsi, perdonare, congedare e sentire. La Lingua dei Segni Italiana (LIS) è molto più di un semplice sistema di comunicazione: ogni segno incarna contesti culturali, esperienze e percezioni sensoriali, rendendola unica e profondamente espressiva. Come lingua visiva, LIS non solo descrive il mondo, ma lo modella attraverso l’uso del corpo, enfatizzando l’importanza dell’esperienza fisica nel costruire significati e relazioni. Tutto questo riporta a ricordi ancestrali che, portati in forma di processo creativo artistico, permettono qualcosa di profondo, personale e curativo, qualcosa che ogni paternità, ogni maternità e ogni figlio/a devono decidere per sé stessi.
Se la fotografia viene da voi utilizzata come strumento di documentazione, la scrittura quale finalità ha nella vostra pratica?
La scrittura è uno strumento di liberazione e ispirazione. Durante le sessioni, il coro e la guida scrivono, quando possono, a getto, seguendo l’imponderabile. Le parole chiave che emergono si trasformano in immagini, ampliando l’idea di ciò che vediamo e sentiamo. La scrittura automatica scardina le idee preconcette e lascia spazio a quella che ci piace definire “profezia”. Diventa anche un metodo di analisi, sia dell’insieme, sia di noi stessi. Spesso attraversiamo anche quella che chiamiamo drammaturgia aperta, registrando le nostre voci mentre accadono. Le tracce rimangono come spunti drammaturgici all’interno di quel ciclo personale e collettivo che ci contraddistingue.
Leggo sul vostro profilo Instagram: «Esercizio ed evoluzione poetica di clapping music. Il ritmo, la coordinazione del ritmo, corpo a filo di corpo, lo spazio e credere di poter tacere “le belle idee” ci ricorda gli animali quali siamo». State lavorando a qualcosa di nuovo?
La clapping music esiste indipendentemente da noi, ma se la affrontiamo con la serietà di un’orchestra, in un contesto diverso può trasformarsi in un viatico per una “presenza collettiva” e, al tempo stesso, in un segno di rigore. Utilizziamo e trasformiamo training che, pur nella loro semplicità, ci guidano verso le dimensioni più intime ed espressive del nostro lavoro. La direzione che prendiamo è connessa ai processi che seguiamo e non include la novità come parte del nostro lessico. Il nostro percorso di ricerca è costruito sulla stratificazione, un processo che scava in profondità, come un carotaggio, alla ricerca di significati. Talvolta è fondamentale lavorare sul passato per approfondirlo, ampliarlo o persino metterlo in discussione. Possiamo raccontarvi di “Non so se il riso o la pietà prevale”, un progetto avviato lo scorso anno grazie all’attrice e danzatrice Simona Zanini, segnando il nostro primo lavoro di regia. Oppure accennare al progetto curatoriale “Colui che vede, colei che dice”, in cui poesia e collage si intrecciano grazie agli artisti Luca Sugliani e Giulia Cosio. Potremmo anche parlare dei progetti di video-arte che realizzeremo con l’artista Valentina Riva, dei giocattoli in legno di Manuelisa Fenn Reggibile, delle maschere create dall’artista Beatrice Algeri. Senza dimenticare “Anatomia Poetica e della voce” in collaborazione con la musicista Mari Celeste Criniti… E molto altro ancora. Per noi, tutto questo non è mai davvero nuovo; è semplicemente qualcosa che affiora in superficie. Come Luca, ironicamente, ama definirlo: è il nostro mostro a più teste. Ogni azione e pensiero, in fondo, nascono da ciò che esiste già. Lavorando con rispetto e ascolto per ciò che c’è, e facendo attenzione a come si manifesta, permettiamo che ogni cosa emerga in modo spontaneo.
Alberto Ceresoli
Info:
SAMANTA CINQUINI (Mia)
Samanta Cinquini (Mia)è artista e performer, ricercatrice e curatrice indipendente, dedicata alla pedagogia, alla drammaturgia scenica e alla filosofia dell’educazione. Laurea in antropologia del teatro e laurea magistrale in storia e critica della fotografia contemporanea. Dal 2016 guida con Micaela Leonardi il gruppo d’arte interdisciplinare Il Pesce d’Oro.
MICAELA LEONARDI
Micaela Leonardi è artista, performer, rilegatrice e costumista. Si forma negli atelier dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Incontra e collabora con realtà e festival internazionali della performance. Dal 2016 guida con Samanta Cinquini (Mia) il gruppo d’arte interdisciplinare Il Pesce d’Oro.
ALBERTO CERESOLI
Alberto Ceresoli è progettista culturale, curatore d’arte indipendente e giornalista. Negli anni ha collaborato con associazioni, gallerie d’arte, editoriali per l’arte contemporanea, project space e ha animato percorsi educativi, di formazione e di inclusione sociale. Dal 2015 è alla direzione artistica di PARCO Art Platform.
is a contemporary art magazine since 1980
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