Concetto Pozzati. Vulv’are

«Vulva, vulv’are, complesso narrativo, organo genitale esterno della donna. Vagina che, nel “volgare”, si dice “fica” se non “figa”, “gnocca”, “passera”, “mona”, “berta”. L’aristocratico “fiore di carne” e “Origine del mondo” (Courbet) sono dedicati alla vulvocrazia». Con queste parole Concetto Pozzati (Vo’ di Padova, 1935 – Bologna, 2017), solito ad accompagnare la sua produzione artistica a flussi di pensiero che riuscivano a essere colti, lucidamente critici e visionari al tempo stesso, presentava il suo ultimo ciclo pittorico, realizzato tra il 2015 e il 2016 e finora mai approdato in nessuno spazio espositivo. Proprio su questa serie è incentrata la mostra Vulv’are a GALLLERIAPIÙ, prima monografica che la galleria bolognese dedica a un “maestro storicizzato”, realizzata in collaborazione con l’Archivio Concetto Pozzati, associazione culturale nata a Bologna nel 2020 su iniziativa dei familiari dell’artista con l’intento di raccogliere tutta la documentazione sulla sua attività, tutelarne l’opera, promuovere la ricerca e diffondere il suo lavoro e il suo pensiero critico in Italia e all’estero. Impossibile approcciare questo soggetto senza pensare immediatamente a Gustave Courbet, mentore ideale di queste opere anche per Pozzati, che mentre le dipingeva aveva fissato con le puntine da disegno una riproduzione dell’Origine del mondo del pittore francese sulla parete di legno del suo studio che fungeva da supporto operativo e da ricettacolo di appunti visivi e parole estemporanee. Se Courbet nel 1866 aveva scandalizzato il pubblico dipingendo un primo piano realistico e gravido di umori corporei che liberava la nudità di qualsiasi idealizzazione, Pozzati indaga il mistero dell’organo riproduttivo femminile a partire dalle suggestioni generate dalla sua morfologia anatomica, che diventa matrice di un’infinita serie di variazioni in cui le sottigliezze della pittura ingentiliscono l’assertività della grafica e della pirografia.

La tematica è dunque chiara e ostentatamente ribadita, ammiccando sornionamente all’ossessione per la serialità tipica della cultura Pop (della cui declinazione italiana l’artista fu uno dei massimi esponenti), ma anche a un certo gusto irriverente per la ripetizione iperbolica che richiama quei filoni della poesia comico-realistica medievale di argomento giocoso o politico come le invettive, di cui si hanno esempi già nella letteratura trobadorica, e i plazer o gli enueg, elenchi di cose piacevoli o fastidiose della tradizione occitanica. Ma, come questi riferimenti visivi e letterari spesso nascondevano precisi messaggi cifrati rivolti ai destinatari più sensibili, anche la disinvoltura del pittore che per tutta la sua carriera aveva provato a “dipingere ancora dopo la fine della pittura” sembra voler sintetizzare, sotto le mentite spoglie del divertissement, gli esiti più maturi e sfaccettati dell’appassionata ricerca durata una vita intera sulle potenzialità dello specifico pittorico per consegnarla al futuro dimostrandone la vitalità proprio nel suo momento di perdita apparente. Molte quindi le intuizioni di cui le vulve si fanno portavoce: anzitutto la pittura come resistenza alla dispersione dell’iper-comunicazione contemporanea e come felice immersione nella lentezza dello sguardo. La pittura come strumento per scrutarsi dentro spogliandosi sempre di più con sé stessi, fino al punto da eliminare l’estraneità dello sguardo rispetto agli oggetti osservati che finiscono per vivere in simbiosi con il pittore, tanto da potersi scambiare i punti di vista perché “è l’opera ad avere gli occhi” ed è lei in ultima analisi a guardare il suo autore e non viceversa.

“Il pittore se non guarda più immagina vulvando, sogna pur con la pupilla spalancata perché ha paura che il sogno svanisca addormentandosi”. Anche il visitatore della mostra, circondato (o assediato?) da vagine stilizzate la cui succosità da frutto non è affatto attenuata dalla semplificazione dello stile grafico, comincia a sentirsi irrequieto e a disagio, non più per la supposta indecenza della rappresentazione come i detrattori di Courbet, ma come inaspettata reazione istintiva nello scoprirsi impossibilitato ad attenuare il desiderio di intimità totalizzante e capillare (con sé stessi, il mondo e le sue proiezioni mentali) che questi dipinti fanno esplodere ancora prima che il pensiero, riconoscendo e categorizzando le immagini, riesca a lanciare un segnale di allarme e a mettere in atto il distanziamento. “Tutto surreale, tutto disegnato, segnato, toccato, accarezzato… Tutto non visto ma incontrato, il fantasma è già arrivato. Non si rappresenta vulvando ma è il segno che ha il suo odore e si fa sempre vulva presentativa, sempre differente, occhio che schiude torpori e calori”. Credo che non si potrebbero trovare parole più efficaci di queste, con cui lo stesso Concetto Pozzati lasciava intravedere come il suo ultimo ciclo – che poi è diventato in qualche modo anche il suo testamento artistico – non fosse altro che una metafora del suo approccio alla pittura. La progressiva compenetrazione tra soggetto e oggetto, messa in atto attraverso la mediazione del segno e del colore, crea tra i due poli uno spazio tangibile di incontro in cui ogni differenziazione si annulla, al punto che il pittore (come lo spettatore) è tenuto sotto scacco dallo sguardo dell’opera che, oltre ad assomigliargli in modo allarmante indipendentemente dal suo pretesto figurativo, rende visibili quelle indicibili fenditure di ignoto e di inquietudine da cui l’essere umano è da sempre attraversato.

Quando si supera la vertigine della molteplicità che sembra annientarci entrando in mostra e ci si colloca nell’occhio del ciclone (provvisoria comfort zone da cui è possibile osservare singolarmente i dettagli di ogni opera), diventa chiaro che le vulve non sono altro che occhi predatori e voraci buchi neri pronti a introiettare l’esistente. Nonostante a prima vista i soggetti della rappresentazione sembrino tutti uguali, in realtà nessuno è identico all’altro come mai identica a sé stessa può essere una percezione che trova la sua più profonda identità solo nel qui e ora, e la loro diversità rivela l’intrinseca carnalità di un’immagine che ha sempre bisogno di nutrirsi di materia per esistere e per assecondare la propria natura metamorfica e allusiva. Non solo vulve, dunque, ma anche occhi, frutti, lucchetti, caverne o fiori diversificati nel formato, nella tecnica e nello stile, per dimostrare come la pittura possa essere un inesauribile archivio linguistico in grado di riconciliare autonomamente tutte le proprie interne contraddizioni per aderire agli impulsi vitali più indicibili.

Info:

Concetto Pozzati. Vulv’are
a cura di Archivio Concetto Pozzati
10.10.2021 – 18.12.2021
GALLLERIAPIÙ
Via del Porto 48 a/b, Bologna

Concetto Pozzati. Vulv’are, installation view GALLLERIAPIú (Bologna), ph Stefano ManieroConcetto Pozzati. Vulv’are, installation view at GALLLERIAPIÙ (Bologna), ph Stefano Maniero, courtesy GALLLERIAPIÙ

Concetto Pozzati. Vulv’are, installation view at GALLLERIAPIÙ (Bologna), ph Stefano Maniero, courtesy GALLLERIAPIÙ

Concetto Pozzati. Vulv’are, installation view at GALLLERIAPIÙ (Bologna), ph Stefano Maniero, courtesy GALLLERIAPIÙ

Concetto Pozzati. Vulv’are, installation view at GALLLERIAPIÙ (Bologna), ph Stefano Maniero, courtesy GALLLERIAPIÙ

Concetto Pozzati. Vulv’are, installation view at GALLLERIAPIÙ (Bologna), ph Stefano Maniero, courtesy GALLLERIAPIÙ


RELATED POST

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.