Dan Halter è nato in Zimbabwe nel 1977, attualmente vive in Sud Africa e nel 2001 si è laureato all’Università di Cape Town. La sua ricerca artistica esplora i confini geografici, il fenomeno migratorio e altri temi politici e sociali, attraverso l’uso di tecniche artigianali, come l’intreccio, e l’inclusione nel suo lavoro di materiali “poveri”, come le borse di plastica intrecciata cinesi. Quando parla della sua pratica afferma: “Il mio modo di intendere l’arte dipende dal fatto che sono originario dello Zimbabwe, ma attualmente vivo in Sudafrica. Il mio lavoro si concentra sulla perdita del senso di appartenenza nazionale, sulla migrazione, e sull’humor nero che caratterizza alcune realtà dell’Africa meridionale. Questo è un contraccolpo dovuto alla storia di oppressione che ancora oggi si protrae”.
Ho incontrato Andrea Sirio Ortolani, fondatore di Osart Gallery, e Dan Halter per conoscere meglio il loro legame e la mostra che inaugurerà in galleria nel mese di giugno.
Lucrezia Costa: Come è nato l’interesse della galleria per l’arte africana e in particolare per il lavoro Dan Halter?
Andrea Sirio Ortolani: Ho fatto il mio primo viaggio in Sudafrica nel 2008, quando ho iniziato ad avvicinarmi al sistema dell’arte africana, facendo degli studio visit da artisti che poi sono diventati importanti nel corso del tempo. Il mio interesse era rivolto anche all’arte afroamericana, e più in generale agli artisti con quelle origini, ed era sfociato in alcune mostre appena aperta la galleria, fin dal 2008. Nel 2009 avevo organizzato una mostra con Titus Kaphar, un artista afroamericano e avevo anche esposto per la prima volta in Italia i lavori di Lynette Yiadom-Boakye. Ho sempre seguito quello che succedeva e due o tre anni fa ho voluto riavvicinarmi dopo un periodo di distacco, per scoprire come si era sviluppato il contesto in questi dieci anni. Quando ci sono tornato il mondo era completamente cambiato: c’era un sistema culturale che era cresciuto in maniera esponenziale con gallerie che sono diventate realtà internazionali, come Smac Gallery, Whatiftheworld, Stevenson, Goodman e blank projects, ma la cosa più importante è che si era cominciato a sviluppare un sistema museale, penso per esempio allo Zeitz MOCAA, e di fondazioni private, come la Norval Foundation, che ha permesso una crescita velocissima, e di grande qualità, di tutti gli artisti e di tutto il contesto culturale. L’avvicinamento a Dan Halter è stato un avvicinamento personale. Ho visto i lavori nei musei e nelle fondazioni e l’ho contattato perché mi affascinava il suo lavoro. Poi da lì è nata una collaborazione, uno scambio culturale tra me e lui, che mi ha portato ad apprezzare sempre di più lui e a capire sempre di più il suo lavoro.
Dan, nella tua pratica utilizzi molti materiali di uso popolare. Che valore hanno per te a livello culturale e quale è il tuo legame con essi?
Dan Halter: Quando ho studiato all’Università di Città del Capo, una delle prime cose che ho imparato era pensare al significato dietro a ogni materiale che decidevo di usare per i miei lavori. Questo mi ha portato ad abbandonare la pittura in favore di materiali che risuonano con la mia anima. Materiali caricati di significati che mi servono come veicolo per tradurre delle idee. Uno di questi è la plastica economica delle borse fatte in Cina che è diventata il simbolo del bagaglio del migrante che vaga nel mondo. Queste borse sono spesso segnate dai nomi usati per descrivere la zona di provenienza del migrante o una particolare regione. Per esempio si chiamano borse Ghana Must Go in Nigeria dopo che i Ghanesi sono stati espulsi da quei luoghi all’inizio degli anni ‘80 e queste borse erano usate per raccogliere i loro averi. Si chiamano Bangladeshi a Londra, Polen Tasche o Koffer Tuerken in Germania e Shangaan o Zimbabwe in Sud Africa. La natura di queste borse riporta anche alle caratteristiche di gran parte della mia pratica artistica. Ho decostruito i patterns trovati su queste borse e li ho riprodotti in modi diversi come forma d’ispirazione. Sono stato fortemente influenzato da artisti come Alighiero Boetti, la cui opera Mappa del Mondo mi ha ispirato per la mia serie Rifugiato Mappa del Mondo.
Ai materiali di cui abbiamo parlato aggiungi l’utilizzo della parola, che a volte si palesa e altre volte rimane celata o cifrata. Che significato ha per te il linguaggio e che legame ha con le materie che utilizzi?
“La parola non è stata riconosciuta come virus perché ha raggiunto uno stato di simbiosi stabile con l’ospite” (William S. Borroughs). La capacità del linguaggio di comunicare idee è vitale per noi come esseri umani. Io uso le parole scritte per la loro natura materica così come il loro contenuto. Questo gioca sui testi, sui tessuti e sulle stoffe. Lavorando con il mio assistente Bienco Ikete abbiamo sviluppato un processo di carta intrecciata. Abbiamo intrecciato alcuni libri classici come La fattoria degli animali e Heart of Darkness, testi ideologici come Il Manifesto Comunista e Il contratto sociale. In questa mostra ognuno di questi libri è stato posto in modo da formare qualcosa di diverso.
Che rapporto hai con l’Occidente e che rapporto hai con la tua terra natia?
Sono fortunato ad avere un passaporto svizzero anche se sono nato e cresciuto in Zimbabwe. Questi due luoghi sono due dei paesi più diversi al mondo. Dopo il liceo in Africa ho passato qualche anno in Svizzera frequentando la scuola d’arte per un anno. Mi mancava davvero tanto casa in quel periodo. Dopo che mi sono trasferito in Sud Africa per studiare arte non era possibile farlo a un certo livello. I miei genitori sono stati attaccati in Zimbabwe e adesso loro stessi abitano in Sud Africa. Il mio senso di appartenenza è stato dislocato, mi sento a casa in Sud Africa ora, parte della diaspora dello Zimbabwe. Il mio assistente Ikete è un rifugiato che proviene dalla Repubblica Democratica del Congo.
Lucrezia Costa
Info:
Dan Halter. Money Loves Money
25.05 – 31.07.2021
Osart Gallery
corso Plebisciti 12, Milano
mail: info@osartgallery.com
www.osartgallery.com
orari: da mar a sab 10.00-13.00/14.30-19.00
Ritratto dell’artista Dan Halter in una foto di Matthew Sandager, courtesy Osart Gallery, Milano
Dan Halter, Bamba Zonke, 2016, borsa di plastica intrecciata ritrovata e modificata, 65 x 70 cm, courtesy l’artista e Osart Gallery, Milano
Dan Halter, Rifugiato Mappa del Mondo (China-centric), 2019 borsa di plastica intrecciata ritrovata e modificata, courtesy l’artista e Osart Gallery, Milano
Dan Halter, The Communist Manifesto (How the west was lost), 2020, stampe a inchiostro d’archivio intrecciate a mano, 150 x 77 cm (dettaglio), courtesy l’artista e Osart Gallery, Milano
Laureata in fotografia e specializzanda in arti visive e studi curatoriali, lavora con l’arte a trecentosessanta gradi, realizzando opere caratterizzate da una forte componente materica.
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