La memoria viene definita dai dizionari come la funzione psichica che ci permette di riprodurre nella mente l’esperienza passata (immagini, sensazioni o nozioni), di riconoscerla come tale e di localizzarla nello spazio e nel tempo. Come estensione di questo concetto, negli anni Venti del Novecento venne coniato da Maurice Halbwachs la nozione di memoria collettiva, ovvero trasmessa oppure costruita da un gruppo o da una società. Il fatto di sistematizzare il passato per renderlo a noi intelligibile è un’esigenza strettamente connessa alla necessità di rappresentarci in modo coerente e attendibile in una prospettiva diacronica. Tale processo è uno dei presupposti indispensabili per elaborare la nostra identità, intesa come il senso della continuità del proprio essere nel corso del tempo in relazione alla consapevolezza delle specificità che lo distanziano da ciò che viene percepito come estraneo. Questa operazione avviene nell’irrisolvibile tensione tra l’esigenza di una registrazione il più possibile integrale e oggettiva e la sua contestuale impossibilità di coincidere esattamente con l’accaduto, da cui deriva la necessità di selezionare “ciò che veramente conta”. Anche escludendo l’ulteriore complicazione dalla parzialità e faziosità delle forze che guidano questa sintesi, si tratta di un processo sempre scivoloso in cui il massimo della certezza finisce per coincidere con il culmine dell’inattendibilità. L’interesse per i meccanismi di formazione della storia in connessione con quelli di costruzione dell’identità sono al centro della ricerca di Daniela Comani, che per la sua sesta mostra personale alla galleria Studio G7 di Bologna presenta una selezione di opere, realizzate nell’arco di trent’anni, la cui sinergia scaturisce proprio da questo intreccio.
Il progetto nasce da un lavoro inedito concepito per la galleria, ovvero l’installazione ambientale “Supporto memoria / Memory device” (2023), composta da quarantaquattro still life fotografici di dispositivi tecnologici utilizzati dall’artista che risalgono agli esordi del suo interesse per la registrazione sonora e visiva. In questa operazione concettuale gli oggetti sono riportarli in scala 1:1 su fondo bianco in ordine cronologico, evitando qualunque concessione alla sfera emotiva dell’immagine, il cui assetto cerca di essere il più possibile neutrale, come se si trattasse di un catalogo tecnico. L’ostentata asetticità di questo mosaico di scatti si presenta come una proposta di oggettivazione degli apparecchi che, evidenziando i cambiamenti del loro design in rapporto all’ampliarsi delle funzionalità in conseguenza del progresso tecnologico, sintetizza e sistematizza il passaggio dall’era analogica a quella digitale a partire dall’esperienza soggettiva dell’artista. Da questo punto di vista, dunque, l’addizione aspirante alla completezza all’origine del processo finisce per essere il risultato di una cernita individuale, che a sua volta funziona da moltiplicatore di soggettività e aleatorietà se pensiamo alle migliaia di immagini da lei create con quegli strumenti, idealmente evocate in latenza nell’esposizione dei loro “contenitori-generatori”. Il fatto che, guardando gli scatti in mostra, siamo istintivamente portati a chiederci che storie abbia vissuto l’artista negli anni e che tipo di memoria abbia voluto costruire in base a esse, fa deflagrare in tutta la sua evidenza il ragionamento sotteso a gran parte della produzione di Daniela Comani, ovvero la constatazione che noi, in quanto società, siamo l’esito di una storia collettiva risultante dalla sommatoria di una pluralità di parzialità.
L’intersezione tra dimensione personale e collettiva suggerita da questo lavoro è amplificata e precisata dalle altre due opere in mostra, anch’esse paradigmatiche dell’attitudine dell’artista a mettere in discussione l’univocità del concetto di strutturazione del tempo storico e di identità attraverso la generazione di nuovi archivi di storie e narrazioni innescate dalle compromissioni della propria autobiografia con i fatti di cronaca e politica (contemporanei o già sedimentati nel passato) che ne hanno condizionato la percezione. Nella Polaroid “Senza titolo (messa in scena di sé stessi)”, 1992, realizzata da Daniela Comani mentre era ancora studentessa all’Università delle Arti di Berlino proprio con uno degli apparecchi immortalati in “Supporto memoria / Memory device”, vediamo un’immagine sdoppiata dell’artista nel suo studio riflessa da una superficie specchiante. Alle sue spalle si riconosce un suo lavoro di quegli anni, un dettaglio ingrandito della monumentale cupola della Große Halle/Volkshalle (Grande sala del Popolo), che avrebbe dovuto essere diciassette volte più grande della Basilica di S. Pietro a Roma, afferente a più articolata ricerca sui modelli dei progetti architettonici per la Grande Germania concertati da Hitler assieme all’architetto di regime Albert Speer. In questo lavoro troviamo già in nuce alcune linee portanti della sua poetica, come la tendenza a portare tecnicamente e concettualmente al limite il medium fotografico e quella a stratificare molteplici livelli di senso e temporali per restituire senso e prospettiva alle fonti storiche.
Il terzo lavoro esposto “East Berlin 1990–2020” (2023) riflette ancora sulla dinamica tra memoria personale e collettiva mediante l’affiancamento di due video, realizzati a trent’anni di distanza l’uno dall’altro come indicato nel titolo, che registrano ciò che si vede dal finestrino di un’auto in movimento lungo un percorso che attraversa i distretti orientali di Mitte e Prenzlauer Berg. Nel primo caso si tratta di riprese effettuate con una camera VHS senza stabilizzatore che conferisce alle immagini una connotazione amatoriale e opaca nonostante la giornata di sole, mentre nel secondo video digitale girato con un iPhone la luminosa nitidezza delle immagini dichiara immediatamente lo scarto cronologico e tecnologico che le separa da quelle più datate. Osservare le differenze tra queste diverse tipologie di riprese invita a riflettere su come l’evoluzione tecnica dei mezzi che impieghiamo per costruire la nostra memoria del mondo finisca per avere conseguenze determinanti anche per l’interpretazione che ne consegue, a livello sia sincronico sia diacronico. Anche qui, nonostante l’apparente neutralità dell’operazione, il lavoro è intriso della storia personale dell’artista, a cominciare dal fatto che entrambi i video, girati il giorno del suo compleanno, nascono dalla sua esigenza di appropriazione e decifrazione della città che l’ha accolta giovanissima e che ora è la sua sede stabile. Questo viaggio duplicato nel tempo e nello spazio veicola poi ulteriori altri sdoppiamenti, come quello tra Berlino Est e Ovest, il prima e il dopo la caduta del Muro (che l’artista ha vissuto e documentato in prima persona) e la dicotomia tra demolizione e ripristino in relazione all’identità della città.
Info:
Daniela Comani. Supporto memoria / Memory device
13.01-31.03.2024
Galleria Studio G7
Via Val D’Aposa 4A Bologna
www.galleriastudiog7.it
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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