Il foto-giornalismo sta cambiando. I social impongono tempi e modi che chiedono di ripensare il rapporto con la realtà e con lo spettatore. Nella rivoluzione delle regole e delle forme, etica, rispetto e morale rimangono un bagaglio imprescindibile con cui attraversare la frontiera verso i nuovi media. Sulla soglia, con un piede radicato nella storia del reportage e l’altro nel nuovo che avanza, c’è anche Dario Mitidieri: una valanga di premi vinti e riconoscimenti tra i più prestigiosi al mondo. Eppure la sua fotografia deve oggi confrontarsi con Instagram. L’arte, però, non si improvvisa e la differenza tra amatore e professionista passa proprio dalla storia che Mitidieri ha costruito. L’occasione del suo ritorno in Italia grazie all’agenzia Sudest57 che lo porterà in settembre a Verona al Festival Grenze di Fotografia, è diventata una chiacchierata sul mestiere del fotografo tra romanticismo e nuove sfide.
Simone Azzoni: “Mi interessa l’uomo e la sua vita così breve, così fragile, così minacciata”. Sento questa frase di Bresson come guida, una chiave di lettura per avvicinarsi ai tuoi lavori…. Cosa interessa a te dell’uomo? Quali lembi di umanità ti interessa sollevare? In cosa consiste la tua missione “umanista”?
Dario Mitidieri: Mi interessa la fragilità dell’uomo, la complessità della persona e la diversità. La mia missione principale è stata – dove ho potuto – dare luce dove c’era il buio, dare una voce a chi non l’aveva e mostrare ciò – come il progetto di piazza Tienanmen – che nessuno avrebbe mai visto. La mia curiosità verso le persone, quel vedere ciò che è dietro l’angolo è diventata una professione.
Sento trasversale ai tuoi progetti un equilibrio interessante tra empatia, partecipazione drammatica alle situazioni e la necessità di agire dentro una missione sociale, storica. Come costruisci questo equilibrio?
Equilibrio è una cosa importante. O ce l’hai dentro o non ce l’hai. Empatia e sensibilità sono fondamentali. Il mio modo di essere riflette il mio modo di fotografare. Mi ritengo una persona sensibile. Ciò che conta è il rispetto. Se non avessi rispetto per le persone non avrei potuto fotografare i bambini di Bombay. Il rispetto è la cosa più importante.
Altro elemento che sento costante è una grande cura, una delicatezza, una disponibilità, attenzione verso l’altro, sospensione del giudizio. Rimangono atteggiamenti professionali validi anche oggi, in epoca di violenza iconografica e di ricerca dello scandalo?
Oggi bisogna fare attenzione a cosa fotografare, a come si fotografa e anche quello che si dice. In un contesto di social media in cui tutto è condiviso bisogna valutare l’impatto dell’immagine sulle altre persone. Non ho mai fotografato la violenza in sé. Davanti allo tsunami che ha devastato il Bangladesh ho scelto di immortalare un anziano signore con due ceste d’acqua sulle spalle. Dietro di lui una catasta di cadaveri, ma fuori fuoco. Quella foto fece il giro del mondo. Non serve la violenza.
“Che diritto ho di rappresentare te?” Ogni volta questa domanda di Levi potrebbe avere una risposta di negoziazione. Qual è la tua? Esiste un compromesso tra l’essere spettatori ed essere intrusi?
Ancora me la pongo dopo trentacinque anni di lavoro. Il compromesso è la necessità di documentare una realtà per fare del bene ad altre persone, anche se questo può significare fotografare persone che non vogliono essere fotografate. A Bombay ho fotografato i pedofili ad esempio, mi hanno visto come uno di loro e si lasciavano fotografare ma io l’ho fatto perché lì era importante raccontare la realtà. Il diritto di rappresentare può essere molto sottile e a volte quella frontiera viene varcata. A volte fotografo senza chiedere, ma poi c’è il dialogo. Ed è l’altro che stabilisce il limite. Il fotografo deve essere prima di tutto una persona.
Esiste un tempo giusto di preparazione prima di iniziare a scattare? Quanto tempo ti dai per conoscere la realtà che racconterai?
La qualità di uno scatto non dipende necessariamente dal tempo di preparazione. Tutto dipende dal momento e dalla storia stessa. Ci sono momenti in cui la preparazione non esiste o ha tempi brevi. In alcuni casi la ricerca si riduce a una strategia, a una programmazione rapida per arrivare nel luogo e nella situazione che ho deciso di fotografare. Ho fatto un lavoro sull’evangelismo carismatico nel mondo, lì era necessaria la preparazione. Ma ad esempio in piazza Tienanmen la preparazione consisteva nel trovare una via di fuga nel caso iniziassero a sparare. In Iraq avevo programmato il viaggio solo fino alla frontiera, senza sapere poi come sarei entrato nel Paese.
Quale criterio pilota la scelta del bianco e nero o del colore? A questa stessa domanda Monika Bulaj e Francesco Cito mi hanno risposto che non c’è un vero e proprio criterio, piuttosto un “sentire”…
Sono d’accordo. Per sentire intendo un approccio soggettivo. Per quanto mi riguarda, esiste anche un contesto storico da considerare. Durante la mia carriera, agli inizi fotografavo quasi esclusivamente in bianco e nero. Ero affascinato dai fotografi della Magnum Photos, però delle volte anche allora sentivo il bisogno di fotografare a colori. Per esempio il reportage sullo tsunami l’ho realizzato con una Hasselblad panoramica per mostrare la vastità. Fino all’avvento del digitale scattavo in bianco e nero, con l’avvento del digitale, siamo diventati tutti “lazy” come dicono qui a Londra. Si va in sonnolenza con il digitale. Le foto dei profughi siriani erano a colori ma non erano abbastanza forti e le ho messe in bianco e nero e il lavoro è diventato più potente, più umano, più sensibile, più un classico lavoro di reportage. Sono nato nell’epoca in cui il classico reportage era in bianco e nero e quella scelta mi ha formato e in essa mi sono identificato.
Credo che in alcune situazioni sia prevalsa l’urgenza di raccontare una storia o di fissare un momento importante della Storia (ad esempio nel progetto di Tienanmen)… Come salvaguardare e distinguere in questi casi il “coefficiente artistico” che la fotografia deve tutelare ed esplicitare?
Nel caso di Tienanmen l’urgenza di raccontare era più importante di quella estetica. È uno di quei momenti in cui la tua passione viscerale passa in secondo piano. La cosa più importante è documentare: una repressione che un governo avrebbe negato se non ci fossimo stati noi. Ma anche in queste occasioni estreme è netta la differenza tra scatto professionale e amatoriale. Il professionista ha l’istinto, la capacità di essere al momento giusto nel posto gusto, va in automatico e compone senza pensare. E poi la differenza la fa la formazione, quando ero giovane ho speso tantissimi soldi per comprarmi riviste fotografiche, mi sono nutrito di migliaia di immagini.
Scioccare o produrre un cambiamento? Qual è lo scopo di un fotogiornalista/fotoreporter oggi, con la concorrenza dei social media che bruciano in modo troppo sintetico le situazioni?
Produrre un cambiamento, ma il cambiamento lo produci anche scioccando. Se non avessi fatto la foto della catasta di morti in un ospedale a piazza Thiennamen non avrei ottenuto attenzione. Come fai a far capire alle persone quanti studenti sono stati uccisi se non glielo fai vedere? Una fotografia vale molte parole. Il cambiamento ormai oggi si fa con i social media.
Sono proprio i social che sembrano privare l’immagine del tempo necessario per poterla meditare… come vedi tu la questione?
Visitare una mostra o leggere un libro sono esperienze fondamentali. È bello avere qualcosa da toccare e da sentire. Ogni giorno guardiamo centinaia di immagini. La forza dei social però è anche quella di amplificare una foto. E far conoscere qualcosa.
La post-produzione, l’artificio tecnico – Photoshop – è da demonizzare? Ne esiste un uso buono che salvaguardi la verità dello scatto?
Nessuno può impedire di essere creativo, non importa in quale modo. Il ritocco in modi diversi è sempre esistito. Bisogna differenziare l’uso creativo dal visivo. In un contesto giornalistico non si può alterare la realtà. Photoshop è un ottimo compagno per creare immagini impossibili da realizzare. La fotografia può essere un processo documentaristico ma anche creativo e personale. Ben vengano i software: sono sempre stati usati nel mondo dell’arte.
Le storie ci appassionano… Raccontarle attraverso la fotografia ha ancora senso, nonostante i giornali ne acquistino meno che in passato?
Questa è la nostra croce. Il modo di raccontare la storia o leggerle non è cambiato, abbiamo sempre la curiosità di ascoltare, leggere e noi fotografi la necessità di fotografare ma non ci sono più soldi. Ho fatto cose pubblicate su testate dagli introiti pazzeschi m non pagavano i fotografi. Quando chiedo a un giornale di essere pagato è come se venissi da un altro pianeta. Mi offrono pochi spiccioli che a mala pena coprono le spese di un aereo. Mi inchino di fronte a fotografi emergenti e meno emergenti che producono lavori pazzeschi che vengono pubblicati per quattro soldi.
Londra è un osservatorio da cui guardare oggi la fotografia italiana… Cose ne pensi, a che punto siamo?
È in atto un cambiamento che mi lascia esterrefatto, tantissimi fotografi li ho scoperti su Instagram. Pubblicavano reportage che altrimenti non pubblicava nessuno: i social sono più importanti della carta. Cosa funziona oggi? Secondo me un mix di concettuale, social e Photoshop.
Cosa hai fatto durante la pandemia?
Mi sono concentrato su progetti personali che hanno a che fare con il Covid, sulla mia famiglia, tutti i giorni la fotografavo. Ogni giorno documentavo la mia zona di Londra e pubblicavo su Instagram. E ogni giorno era importante, un modo per rimanere creativo in un anno tra i più difficili della nostra vita.
Simone Azzoni
Info:
Dario Mitidieri, La sveglia del mattina della gang di Victoria Terminus Station lungo la banchina del binario numero sette. Bombay, India © Dario Mitidieri 1992, courtesy the artist
Dario Mitidieri, Savita, una bambina di due anni e mezzo, si esibisce di fronte ai turisti che seguono lo spettacolo affacciati alle finestre degli alberghi nei pressi di Gate Way of India a Colaba. Bombay, India © Dario Mitidieri 1992, courtesy the artist
Dario Mitidieri, Dopo una retata della polizia, Sabina, nove anni, e sua sorella Nafisa, quattro anni, provenienti da Aurangabad, vengono interrogate in una cella della stazione di Dadar. Bombay, India © Dario Mitidieri 1992, courtesy the artist
Dario Mitidieri, Bombay, India © Dario Mitidieri 1992, courtesy the artist
Dario Mitidieri, Bombay, India © Dario Mitidieri 1992, courtesy the artist
Dario Mitidieri, Bombay, India © Dario Mitidieri 1992, courtesy the artist
È critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine presso l’Istituto di Design Palladio di Verona e Arte contemporanea presso il Master di Editoria dell’Università degli Studi di Verona. Ha curato numerose mostre di arte contemporanea in luoghi non convenzionali. È direttore artistico del festival di Fotografia Grenze. È critico teatrale per riviste e quotidiani nazionali. Organizza rassegne teatrali di ricerca e sperimentazione. Tra le pubblicazioni recenti Frame – Videoarte e dintorni per Libreria Universitaria, Lo Sguardo della Gallina per Lazy Dog Edizioni e per Mimemsis Smagliature nel 2018 e nel 2021 per la stessa casa editrice, Teatro e fotografia.
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