Di recente la città di Roma è stata rivitalizzata dalla diffusione di studi d’artista che ha consentito di dare visibilità ai protagonisti, permettendo loro, altresì, di acquisire certezza e fortezza nella loro pratica. Eppure, ad una ricognizione estensiva dalla capitale, è utile riflettere quali siano stati gli sviluppi ed i passaggi successivi a questa fase, che secondo l’interpretazione più benevola è stata una gigantesca prova atletica d’artisti e d’intelletto critico collettivo. Tanto più si deve possedere un cuore di pietra per non avvertire la necessità di domandarsi se dopo quel periodo sia maturata veramente una nuova pittura folgorante, stupenda ed impossibile allo stesso tempo?
Al contempo non bisogna sottovalutare un aspetto di grande rilevanza: Roma è sempre stata meta prediletta di cultori che hanno impazientemente abbandonato le proprie radici per conoscere una terra articolata, spinti «dall’amore della sua maschera rugosa e policroma, forse stucco e forse carne».[1] Così, per l’annunciata ricognizione è utile volgere lo sguardo ad altre realtà culturali, quali le Accademie d’Arte straniere, dei punti di riferimento ed aggregazione cittadini che respirano di diverse e vitali motivazioni istruttive. A tal proposito, l’Accademia di Danimarca di Roma organizza ciclicamente periodi di residenza della durata di un mese a favore di cultori di diverse materie che intendono sviluppare un progetto che trovi base ed aspirazione per il territorio italiano. Tra i frequentatori attuali v’è l’artista David Noro (1993, Copenaghen), il quale occupa il laboratorio di pittura dal 4 al 29 settembre 2023, con uno studio interamente dedicato al proprio nonno originario di Piglio in provincia di Frosinone, il quale mantiene salda la tradizione della produzione di basto, selle di legno imbottite di tessuto per asini. Ebbene Noro si muove con una capacità quasi stregonesca, giocando sul tema generazionale, costruendo altresì, una ricerca di ostinata e d’affettuosa curiosità verso le sue origini. Per cui tutto ciò che l’artista crea in residenza è generato da un leggiadro soffio, tenuto in vita dallo studio del processo originario di fabbricazione artigianale, che gli consente di maneggiare diverse texture inaspettatamente. In tale contesto, Noro scopre un panneggio di linguaggio[2] che lo accompagna alla scoperta di un nuovo ambiente di linguaggio, dilatando inoltre l’attenzione sulla teste d’umana espressione, mai in pose soavi, bensì fissate nel loro più assurdo incidente espressivo.
Tuttavia, per comprendere la ricerca di Noro è inutile compiere una distinzione dei supporti utilizzati, giacché i dipinti su tessuto e tavola ideati in residenza, presentano lo stesso principio creativo: colori disposti come macchie oculistiche, che recitano suoni graffianti ed un poco rumorosi, tendenti comunque a chiudersi ermeticamente nella loro poesia distorta ed appena ingentilita. Eppure, vi sono diversi modi di affrontare una ricerca così personale e l’artista nell’occasione la sviluppa in modo suggestivo, attraverso una gestazione riflessiva che lo induce, mai senza alcuna urgente sollecitazione, a rimuginare gli impulsi, per maturare di contro, un atto pittorico, svelto, lasco e vivido d’acerba fascinosità. Così, per l’artista è piuttosto evidente, e quindi palmare che l’utero culturale della sua famiglia d’origine lo solleciti a riflettere anche su stesso, e a volte capita che il suo volto compaia in scene deliziosamente esasperanti velate da una asciutta ilaricità. Taluni studi lo vedono librarsi come una farfalla libera, che gli consente di dipingere senza alcun cavalletto da sostegno, bensì su tavoli orizzontali con l’uso dei classici strumenti pittorici, assieme a rulli e macchinari della pratica incisoria.
Questo fantastico intento alla sperimentazione più estrema genera una pittura di tocco non visivamente e volutamente eccelsa, ma sicura e d’impatto, ragion per cui le figure si dispiegano senza alcuna prospettiva proprio come in un fregio, ed inconsapevolmente acquisiscono un alone di antico primitivismo, talché isolando il soggetto viene accresciuto efficacemente il suo contenuto. Così se i motivi si stagliano sulla piana superficie è perché sono frutto di una fantasia strogolante, proprio come in una fittizia e piatta mappa in cui v’è da dedurre un racconto, una riflessione o un artificio. Inoltre, si accenna appena ad un luogo, ma non è dato sapere dove si situi, dimodoché gli elementi trascritti per esteso si pongono come dei gorghi psichici in cui delle spontanee smorfie facciali ci fanno riflettere sul processo di riconoscimento, inteso come uno scarto minimale tra il tempo che impieghiamo a riconoscere la nostra immagine e l’altrui.
D’ulteriore interesse è lo stravolgimento della struttura dell’opera, ed infatti la prospettiva è rara ed il rapporto tra il fondo e ciò che v’è in primo piano attiva il dinamismo di un sogno, alcune volte calmo e senza orgasmo, mentre in altri casi irruento, siccome volto contrastare i dati esigibili con notazione pittoriche veloci che proseguono come un sussulto al margine del supporto. In altre opere, invece, aleggia un leggero spirito di calcolato humor, con una preponderante fisiognomica, che beninteso ora si pone non come il proprio ritratto o quello di altri, bensì come un viso plastico, che conosce rossori, ed in cui gli occhi e le forme nasali finiscono per essere le parti più interessanti. Questo effluvio d’antichità, a tratti cavernicola e grottesca, ci induce ad interrogarci se il volto rappresentato appeso nel vuoto del cielo d’acquosa incertezza sia cosa viva, o forse di colore o forse di carne?
Ecco, attualmente è questa riflessione che impregna Noro e di cui si vedranno, si è certi, sviluppi sempre più interessanti a venire, ma che tuttavia inducono a far sorgere un’altra questione: ci si può riflettere in una smorfia, sarà mica una melanconica rassomiglianza di noi stessi, un disfacimento del nostro aspetto o una inflessione caricaturale che si acquisisce quando sfioriamo il beneficio del dubbio? No, sarebbe riduttivo preferire tale scelta e quindi le maschere di Noro fanno pensare piuttosto un luogo dove si posano pensieri, a differenza del deliberato silenzio nel lussuoso intellettuale mondo romano, in cui prosperano tante maschere di stucco. Ed allora sarà davvero proficuo scoprire nuovi e più rumorosi luoghi dove si da corpo a giovevoli risse intellettuali e di pensiero, teatri di dialettica in cui si privilegiano personaggi che indossano maschere fatte forse di colore o forse di carne.
Maria Vittoria Pinotti
[1] Giorgio Manganelli, La maschera italiana, in Lunario dell’orfano sannita, Piccola Biblioteca Adelphi, (1991), 2018, p. 33
[2] Georges Didi-Huberman, Ninfa profunda. Saggio sul panneggio-tormenta, Abscondita, Aesthetica, (2017), 2022, p. 50
Info:
David Noro
Accademia di Danimarca a Roma
Via Omero, 18, 00197, Roma
Dal 4/9/2023 al 29/9/2023
Sito web: https://www.acdan.it/
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
NO COMMENT