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Dimensione virtuale con gli artisti Harun Farocki e Ian Cheng: dal MoMa di New York alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Se nella seconda metà del Novecento, l’utilizzo dei primi computer per finalità artistiche coincide con una rivoluzione epocale poiché proprio la tecnologia informatica – assunta a nuovo paradigma – inizia ad analizzare e tradurre in calcoli anche la processualità del segno artistico, nel nostro secolo è il virtuale a determinare cambiamenti storici esponenziali e inediti. L’uso del computer ha attribuito all’informatica il compito di tradurre dati, informazioni e software capaci di creare algoritmi di ogni tipo (anche quelli da gioco) con l’avvio di realtà virtuali che hanno portato all’arte digitalizzata, definendo un nuovo modo di percezione del proprio sé e del mondo nella sua duplice dimensione reale e virtuale. I computer, in quanto dispositivi capaci di entrare nelle menti di ognuno, hanno radicalmente cambiato la nostra maniera di percepire il reale, visto l’accumulo esponenziale di dati, informazioni e variabili che infinitamente forniscono.

E questa loro capacità di ricreare ambienti virtuali, attraverso specifici software, è stata analizzata dall’artista, giornalista, autore teatrale, regista tedesco – professore all’Accademia di Belle Arti di Vienna – Harun Farocki. Classe 1944, scomparso prematuramente nel 2014, ha esplorato il modo in cui la tecnologia dei videogiochi viene usata per addestrare le truppe statunitensi per motivi bellici e anche per analizzare l’effetto della guerra – Disturbo Post Traumatico da Stress – nelle forze armate statunitensi. I suoi filmati della serie Serious Game (2009- 2010) – girati presso il Centro di combattimento aereo terrestre Marine Corps degli Stati Uniti – sono stati esposti al MoMa di New York che offre anche online una gallery delle installazioni dell’artista tedesco. In Serious Game Farocki analizza quanto la dimensione di un videogioco, che riproduce fedelmente le modalità di un attacco bellico, abbia una forte implicazione sulle menti di chi si espone a tale visione, spingendo così il pubblico a riflettere sul ruolo potente esercitato e raccontato dai media e da qualunque rappresentazione immersiva, tipica dei videogiochi e non solo.

Se si resta, a tal proposito, sempre nel terreno immersivo dei videogiochi, spicca l’americano Ian Cheng (classe 1984) con i suoi videogiochi come Emissaries, definito dall’artista come “un videogioco che gioca da solo”, in cui animali selvatici e personaggi virtuali interagiscono in una costante dimensione narrativa, che si evolve all’infinito all’interno di un ecosistema autonomo, generato da una tecnologia predittiva, come quella usata per le simulazioni complesse (elezioni o cambiamenti climatici). Lo stesso Cheng dichiara in una intervista riportata sul sito del MoMa – che ha acquistato questa trilogia dell’artista, dando ulteriormente spazio di riflessione ed esposizione al tema immersivo e narrativo dei videogiochi – quanto sia fondamentale l’aspetto narrativo e il fatto stesso che si creino delle storie con variabili infinite nel suo ecosistema virtuale.

In Italia, invece, spicca la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, tra le prime nel 2015, ad aver ospitato la prima mostra italiana di Cheng con un episodio della sua trilogia ovvero Emissary in the Squat of Gods”, manifestando grande attenzione verso la modellazione algoritmica, lo stesso principio del videogame e del game design articolati come simulazioni per compiere una ginnastica neuronale. Questo primo episodio di Ian Cheng è incentrato sugli sviluppi dell’evoluzione cognitiva, sulla base degli scritti di Julian Jaynes. Il focus propulsore è la percezione della coscienza e di come questa sia mutata e si sia stata destabilizzata nel rispondere alla complessità del mondo in continua evoluzione. Ne risulta, quindi, un ecosistema virtuale con i soggetti del video game in strutture di base narrative che possono cambiare e svilupparsi all’infinito in sequenze algoritmiche perché, secondo Cheng, l’arte può farci innamorare dei sistemi legati alla complessità e il cervello stesso è un muscolo da allenare attraverso la dimensione narrativa, data soprattutto dalla realtà immersiva e virtuale.

Non è forse un caso se l’identità del nostro secolo, attraversato dalla prima grande pandemia da Covid 19, stia trasformando anche il modo di fruire dell’arte con effetti immersivi da sperimentare anche a distanza. Così, se i protagonisti di Ian Cheng sembrerebbero esposti e predisposti alla capacità infinità di adattarsi e cambiare, nonostante il caos, la confusione generata dalle continue minacce alle quali sono esposti per fronteggiare l’ansia del cambiamento, lascia intuire che forse l’umanità contemporanea non è così allenata.

Ormai, l’idea narrativa dell’arte virtuale-immersiva sta cambiando tutti noi con il bisogno sempre più costante di creare contenuti e storie nei social o nel mondo digitale dei media perché è nella nostra mente che è stata già avviata la più grande rivoluzione della percezione sulle cose del mondo. Il punto è capire se ne abbiamo coscienza oppure l’abbiamo già dimenticata. In questa direzione, possiamo capire meglio il messaggio di Ian Cheng per allenare la nostra mente al caos e ritrovarci. Invece di venire sopraffatti.

Nilla Zaira D’Urso

Info:

www.harunfarocki.de/films.html

www.iancheng.com

Ian Cheng, The Emissary In the Squat of God, 2015, installation view at Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, photo Maurizio Elia, courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Ian Cheng, The Emissary In the Squat of God, 2015, installation view at Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, photo Maurizio Elia, courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo


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