Sabato 2 aprile è stata inaugurata a Vigevano, presso la Seconda Scuderia del Castello, la mostra Dis-parità, curata da Lucrezia Arrigoni per l’associazione culturale Astrolabio. Il percorso prevede la fruizione delle opere di quattordici giovani artiste e artisti che lavorano tra Milano e Vigevano: Astrid Ardenti, Shailey Asha, Adina Bettega, Matteo Bianchini, Linda Brindisi, Vincenzo Cuccaro, Martina Dendi, Cecilia Di Bonaventura, Elsa Finardi & Ivan Bedeschi, Elisa Garofani, Fabiola Skraqi, Rachele Turini, Lisa Vedovelli.
Il fil rouge che collega tutti i lavori allestiti e che accompagna il percorso della mostra è l’urgente necessità di trattare il tema delle disparità di genere attraverso il simbolo/medium del corpo, qui adottato come filtro per conoscere sé stessi, a livello biologico e introspettivo, ma anche per misurare il sé rispetto al contesto in cui si è calati. È infatti attraverso i lavori presenti in mostra che si apprende come vi sia ancora una sentita necessità di discutere di queste tematiche, in quanto è evidente che non si è ancora giunti a una completa accettazione dell’Altro, a una serena e pacifica convivenza con colui o colei che, nella più assurda semplicità, è in realtà uguale a noi ma che, per una serie di costrutti sociali che ci portiamo appresso da troppe generazioni, continuiamo inevitabilmente a percepire come “diverso” o “diversa”.
È inoltre molto significativo che una mostra della simile portata sia stata presentata in una realtà provinciale, a Vigevano, cittadina che, per quanto possa godere della vicinanza di una così grande e sinergica metropoli, quale è Milano, spesso, per questo stesso motivo, rischia di vivere alla sua ombra rinunciando alla costruzione di un palinsesto di proposte di attività sociali e culturali veramente interessanti e di qualità.
La mostra si divide in tre grandi tematiche, esplicitate anche a livello allestitivo grazie all’architettura della Seconda Scuderia del Castello Sforzesco. Tutte presentano come protagonista il “corpo”, ma pensato, performato ed esposto in accezioni diverse.
Entrando, nella navata di destra, possiamo trovare tutti i lavori che trattano il corpo come strumento per il riconoscimento del sé. Fabiola Skraqi è la prima artista che osserviamo, con le sue due tele a olio, ci mostra la rappresentazione di parti interne della bocca umana, realizzate grazie allo studio di alcune fotografie di gastroscopie. Questi lavori mostrano come biologicamente i corpi siano tutti funzionanti in maniera molto simile, tuttavia, le modalità attraverso cui il nostro cervello attiva i muscoli finiscono per generare disparità. Ad esempio, nella bocca qui raffigurata si potrebbero creare vibrazioni che attiverebbero potenziali situazioni di aggressione o violenza.
Proseguendo, la grande tela di Rachele Turini raffigura due donne sedute nell’attesa che il loro corpo venga finalmente accettato dalla società, nude, inermi, tristi e sconsolate. Il lavoro dialoga perfettamente con il vicino lavoro di Shailey Asha, la serie Skin, la quale, mescolando la palette di colori provenienti dal cinema bollywoodiano, crea vere e proprie esplosioni cromatiche, con l’obiettivo di dimostrare come ognuna di queste tinte abbia il diritto di esistere e di fondersi e unirsi a tutte le altre.
A seguire vi è il lavoro di Martina Dendi, il più discusso dal pubblico della collettiva. L’artista espone sei fotografie in bianco e nero raffiguranti una sostanza circolare non ben definita, ma sicuramente dalla natura biologica. Solo successivamente, osservando la lastra di vetro che vi pende davanti, si capisce che al suo interno è presente il sangue mestruale dell’artista stessa, che ha quindi fotografato ed esposto, annullando l’originale visione a colori, con lo scopo di aderire, in una maniera che possiamo definire sarcastica, a quella noiosa estetica del bello e dell’ordinato, pur di perseguire la sua lotta per una sessualità più libera e meno stigmatizzata.
Sono poi esposti i lavori di Linda Brindisi che, con materiali cartacei anni Settanta, inscena una “dissacrazione del sacro”. Trasgredendo all’idea cattolica per cui l’amore è vero solo se avviene davanti agli occhi di Dio, con questi collage viene invece ribadita un’idea di amore universale e senza tempo. Così, adottando la figura del cerchio come simbolo principale del suo lavoro, all’interno dei suoi tre quadretti, l’artista mostra il corpo della donna, quello dell’uomo e, infine, l’esplosione di queste forme in un sentimento divincolato dai canoni imposti.
Segue Elisa Garofali con i suoi disegni, realizzati con rossetto su carta, di cinque areole di capezzoli femminili. Il capezzolo, se appartenente a una donna, diviene immediatamente una delle parti del corpo più censurate nella nostra era, basti pensare ai sistemi di riconoscimento artificiale attivi su piattaforme e social, quali Instagram, che sono in grado di riconoscere ed eliminare dalla rete solo ed esclusivamente i capezzoli di donne, mentre quelli degli uomini, seppur visivamente identici, hanno il diritto di poter essere postati, visualizzati e likati.
Nella navata centrale possiamo invece trovare un corpo come strumento per l’abitare. Vi è l’opera I Cani di Matteo Bianchini che, con un carattere fortemente punk, mette in piedi un’esegesi del mito dell’androgino. Partendo da un’unica struttura, un trasportino per animali, l’artista ha dato vita a una coppia di strutture completamente nuove che, seppure nate con lo stesso scopo d’uso iniziale, ovvero quello del rifugio, risultano ora del tutto non funzionali e a tratti grottesche. Le due abitazioni di fortuna, per quanto simili, si osservano da lontano e, proprio come i cani, diffidano l’una dell’altra, scrutandosi senza veramente mai interagire.
Inoltre, in tutta la lunga navata sono presenti gli aquiloni di Cecilia di Bonaventura, Estetica della festa, che nascono come critica per registrare e fare emergere i bisogni dei meno ascoltati della nostra società: le bambine e i bambini. Un lavoro che prende vita da una ricerca sul campo, nella quale l’artista ha messo insieme le testimonianze dei bambini stessi, per creare infine cinque oggetti che riportano le scritte: CHI, COSA, DOVE, QUANDO, NECESSARIO. Si tratta di un gruppo di giocattoli che mostra la necessità, ma anche la triste urgenza, dei più piccoli, di dover denaturare una dimensione così spassionata, come quella del gioco, pur di farsi sentire e di reclamare il proprio diritto a possedere una voce all’interno di una società che non li riconosce come individui autonomi e pensanti.
Segue l’opera di Adina Bettega, Domenica italiana, un ventilatore posto orizzontalmente al pavimento, sul quale alcune casette di carta sono installate affinché fluttuino nell’aria emanata dallo stesso. In questo modo le casette appaiono piene di vita, fermento, buon cibo, ma anche un infinito parlottìo, tipicamente italiano, che gira sempre su sé stesso e non si evolve mai, e che non riesce a uscire dalle credenze della casa per abbracciare la diversità del mondo.
Questa è anche la navata in cui, il giorno dell’inaugurazione, sono avvenute due performance. Giulia Terminio ha inscenato Vandatta recitando passi della tragedia di Antigone, strusciandosi per terra, soffrendo e ansimando su un microfono cercando di esprimere un forte disagio interiore, mentale e fisico, intimo ma anche nei confronti di chi ha osservato l’azione di tipo performativo. Il video dell’atto è poi stato presente in mostra per tutto il resto della durata della collettiva. Mentre, Lisa Vedovelli ha messo in scena Comizio, tre minuti nei quali l’artista ha urlato discorsi politici che trattavano della condizione delle minoranze e di come il corpo di chi non viene riconosciuto all’interno dello “standard” viene spesso percepito come affare dello Stato e delle politiche, e quasi mai delle persone stesse che lo abitano e curano ogni giorno.
Infine, nella navata di destra, vi sono i lavori che presentano un corpo come strumento politico. Partendo sempre dall’ingresso, troviamo la ricerca di archivio di Elsa Finardi & Ivan Bedeschi che, rispetto ai lavori presentati precedentemente, adotta la cifra artistica per attuare un’indagine politica. Sono infatti installati sulla parete i disegni di Ivan, realizzati senza mai staccare la penna, o la matita, dal foglio e senza mai guardare il tratto, stampati su grandi cartelloni, simili a manifesti, corredati da frasi e parole di Carla Lonzi. Accanto vi sono alcuni passi della tesi di laurea di Elsa, nella quale, attraverso vari studi sul corpo e i corpi, teorizza i “disability studies”. Pezzi dei quali mi è particolarmente rimasta impressa la frase “se la rosa perdesse il suo nome, profumerebbe ancora?”.
Seguono le fotografie di Astrid Ardenti, scattate in Argentina, nel 2019, in concomitanza con la nascita del collettivo Non Una Di Meno. Scatti, in bianco e nero, che mostrano le performance, dal grande impatto visivo, realizzate per piazze e vie delle città sudamericane per richiedere il riconoscimento dei diritti fondamentali delle donne, in paesi ancora così negligenti.
Vi sono poi i lavori di Vincenzo Cuccaro che, con una sottilissima ironia, mirano ad annullare una mascolinità tossica, ad esempio rappresentando, con lavori grafici, il Mister Olympia Arnold Schwarzenegger che, con l’aggiunta di una “ə” sugli addominali e sul pube, perde i simboli della sua sessualità a favore, invece, di una divisione meno netta e più fluida del genere.
In conclusione, si può dire che la mostra ha riscosso un grandissimo successo e ha dimostrato l’attualissima necessità di discutere di simili tematiche, a maggior ragione in una piccola città di provincia come Vigevano. Inoltre, tale occasione ha permesso di rilanciare la cittadina come potenziale luogo promotore di nuovi eventi culturali, in quanto, nonostante la fama assunta in passato, grazie alle illustri figure di Da Vinci e Bramante, Vigevano non è più riuscita a risultare un luogo attrattivo dove investire per la cultura. Il reale scopo della mostra era infatti promuovere un’apertura in un luogo dove la chiusura mentale e fisica è una costante con cui convivere e a cui sopravvivere.
Anita Fonsati
Info:
AA.VV., Dis-parità
a cura di Lucrezia Arrigoni
sponsorizzata da associazione Astrolabio
02/04/2022 – 10/04/2022
Seconda Scuderia del Castello Sforzesco
Vigevano
Martina Dendi, XX-XY, 2018, una lastra negativa con sangue mestruale, sei stampe fotografiche in camera oscura su carta Ilford Multigrade, IV RC DE LUXE Pearl, alluminio nero con taglio angolare, stampa a contatto. Ph. Astrid Ardenti, courtesy l’artista
Rachele Turini, Quella volta in cui mi hai detto “Prima che scompaia”, 2021, olio su tela. Ph. Astrid Ardenti, courtesy l’artista
Elisa Garofali, Aureola, serie, 2020, rossetto su carta. Ph. Astrid Ardenti, courtesy l’artista
Matteo Bianchini, I cani, 2022, tecnica mista su trasportino per cani di grandi dimensioni. Cecilia di Bonaventura, Estetica della festa, 2021, stampa a vernice su vela di spinnaker, briglie in poliestere alta tenacità, doppio tensore di regolazione, cavo. Ph. Astrid Ardenti, courtesy gli artisti
Giulia Terminio, Vandatta, 02/04/2022, performace. Ph. Astrid Ardenti, courtesy l’artista
Lisa Vedovelli, Comizio, 02/04/2022, performace. Ph. Astrid Ardenti, courtesy l’artista
Ivan Bedeschi & Elsa Finardi, Una identificazione altrove, 2022, serie di cinque manifesti. Se una rosa perdesse il suo nome profumerebbe ancora?, 2022, tre cornici con libro destrutturato. Ph. Astrid Ardenti, courtesy gli artisti
Astrid Ardenti, Cada vez somos más, 2019, una stampa fotografica ai sali d’argento da negativo 35 mm, otto stampe fotografiche Fine Art da negatvio 35 mm. Ph. Astrid Ardenti, courtesy l’artista
Curatrice e critica d’arte contemporanea, lavora a Milano. Laureata nel corso triennale di Economia e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali presso Università Cà Foscari di Venezia e al corso di biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. È attualmente contributor per Exibart e per Juliet Magazine, di cui è anche assistente editoriale web. È inoltre co-fondatrice e tesoriere dell’associazione culturale Genealogie del Futuro. La sua ricerca curatoriale verte sulla ridefinizione del rapporto che intercorre tra arte contemporanea e società, soprattutto all’interno dello spazio pubblico.
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