Disintegrata, progetto espositivo ideato per gli spazi della Collezione Maramotti dalla fotografa Silvia Rosi, esplicita già dal titolo la sua duplice specificità in uno sviluppo a doppio binario che investe aspetti formali e contenutistici. La mostra è infatti costituita da immagini spesso divise e moltiplicate che rimandano allo stato di un lavoro “in costruzione”, restituito al fruitore utilizzando un linguaggio che mixa fotografie (la cui presenza è preponderante) a opere digitali e video. Analogamente è frammentata l’identità dell’autrice, nata a Scandiano da genitori togolesi, cresciuta in Emilia dove attualmente risiede, dividendosi, dopo una laurea in fotografia conseguita al London College of Communication, tra l’Italia, l’Inghilterra e Lomè.
Il termine “disintegrata” che dà il titolo alla mostra (espressione mutuata da una frase della madre che era solita dire a Silvia “ero integrata ora sono disintegrata”) al contempo non allude solo banalmente allo stato dell’autrice, ovvero l’essere il risultato di un melting pot, quanto al condividere un destino comune a quello di tante famiglie distribuite su territorio nazionale che hanno parti dislocate in vari luoghi, aspetto questo che anima altresì l’intenzione creativa sottesa al suo modus operandi che parte da narrazioni autobiografiche per affrontare temi universali come quello della diaspora. Questa esposizione, infatti, vuole porre le basi per creare un progetto più esteso e articolato, teso ad attivare una rete italiana di cittadini afrodiscendenti e la costruzione di un archivio familiare della diaspora su territorio nazionale, volto ad approfondire nuove occasioni di diffusione di conoscenza visiva attraverso foto vernacolari. Il percorso espositivo si apre con immagini montate su monitor spesso accostate tra loro, statiche o in movimento, realizzate in bianco e nero o a colori, che immortalano Silvia Rosi e la madre mentre attraversano il paesaggio e ne divengono parte integrante, assimilandolo.
Un paesaggio di pianura, dominato da erba alta, scevro da ogni segno distintivo e connotante che da una parte rimanda a un luogo sospeso, neutro, senza spazio né tempo, dall’altra, soprattutto per chi è solito frequentarlo, rievoca inequivocabilmente scorci emiliani. È il medesimo paesaggio tanto amato e ritratto dallo stesso Ghirri, nato a Scandiano come Rosi e scomparso nel ‘92 proprio quando lei nasceva, «quel paesaggio di pianura in cui non vi è nessun elemento straordinario o inconsueto a cui aggrapparsi» e che in questo caso fa da sfondo discreto per far emergere le persone che vi sono ritratte e che lo occupano. Una pianura abitata dall’artista e dalla madre, fotografata, attraversata, vissuta da entrambe in un’esperienza di mimesi e appropriazione già avvenuta, eppure ri-teatralizzata per tenerne traccia. In questo paesaggio domestico, rigoglioso, verde, luminoso, immobile, le donne riprese in tableaux che a tratti si animano, indossano la stessa giacca, fil rouge che connota un’appartenenza comune, intima, sintetizzata nell’“indossare gli stessi panni”, in una registrazione che documenta un’origine condivisa. Rosi non è estranea a operazioni di questo tipo: vengono in mente alcuni suoi lavori passati in cui il cercine (base di tessuto arrotolato per trasportare carichi sul capo), viene ripreso mentre lo si costruisce in una tradizione che si tramanda di generazione in generazione (Mother and Grandmother) o addosso alla stessa Rosi mentre veste un’uniforme scolastica, con riferimento alla vita da mercante della madre iniziata molto presto; esso diventa simbolo culturale di trasmissione matrilineare, spia della medesima provenienza.
Nella seconda sala campeggiano autoritratti dell’artista alias Disintegrata calata in situazioni diverse: in bici, sotto al casco del parrucchiere, di spalle, in attesa assieme a un paio di valigie, vestita da sposa con abiti tradizionali e moderni. Si tratta di narrazioni che Silvia Rosi ricrea in studio ispirandosi agli album di famiglia, un’operazione che riprende dalla tradizione africana occidentale per cui era usuale per la gente comune farsi ritrarre in studi che erano veri e propri set, teatri di posa colmi di oggetti del desiderio (come frigoriferi, motorini, radio, telefoni), indiscutibili status symbol con cui farsi immortalare. Ritratti reinterpretati a loro volta da famosi artisti africani da cui la giovane fotografa trae ispirazione condividendone l’estetica, quali Malick Sidibé, Seydou Keïta e ancora di più, per l’aspetto che unisce alla fotografia, l’autoritratto e la performance, Samuel Fosso. Rosi gioca riallacciandosi a questa tradizione reinventandola a suo piacimento, un po’ come aveva fatto in passato impersonificando il padre e la madre, creando autoritratti scaturiti da ricordi personali o tramandati, i cui sfondi ambientali recano tracce di pattern geometrici analoghi a quelli reperibili negli scatti di Sidibé. Ancora una volta il fruitore si trova di fronte a visioni separate, moltiplicate, realizzate con gli stessi soggetti che accolgono visioni multiple, come l’autoritratto dell’artista accanto a numerose foto di famiglia inserite in cornici di varie dimensioni ammucchiate su comodini di legno o al dittico che diventa spunto per riflettere sul concetto di rappresentazione in cui Silvia in tailleur si copre il viso occultandolo e sostituendolo con album su cui campeggia la scritta AGFA (a rafforzare la duplice identità di donna e fotografa, ma anche per eleggersi rappresentante di una famiglia allargata più estesa), o ancora al trittico dove Rosi si ritrae con un abito da sposa tradizionale africano accanto a uno scatto in cui indossa un look contemporaneo da sposa moderna con bouquet che le copre lo sguardo.
A rimarcare l’autorialità del punto di vista c’è il dispositivo dell’autoscatto che fa capolino nelle foto e che rivela la presa di coscienza della propria messa a fuoco e identità, all’interno di una regia consapevole in cui Silvia è soggetto e autrice, senza possibilità di fraintendimento e dove anzi viene mostrato il “dietro le quinte” tramite l’esibizione di un linguaggio che ben si padroneggia, come testimonia l’opera contrassegnata dal bollino rosso con cui Rosi identifica i negativi da stampare o quei lavori con segni evidenti di prove di stampa, suscettibili, all’occorrenza, d’essere cambiati. La terza sala accoglie alcune immagini di album di famiglia (molte delle quali riposte in una teca trasparente), che raccontano la vita quotidiana di immigrati africani prima del 2000, facenti parte di quel grosso lavoro ancora in fieri coadiuvato da Mistura Allison, Theophilus Imani e Ifeoma Nneka Emelurumonye, di cui si accennava poc’anzi. A conclusione del percorso, un video riprende la fotografa immersa nell’ascolto di registrazioni di audiocassette di voci di familiari lontani intenti a leggere lettere, dove emerge una quotidianità in cui ci si aggiorna su salute, questioni economiche e sentimentali. Uno spazio della memoria restituito attraverso una proiezione divisa e rievocato, questa volta, per mezzo della parola, grazie alla quale ogni spettatore immagina i protagonisti di questi scambi epistolari ricreando un proprio album personale. Disintegrata, prima mostra istituzionale italiana della giovane fotografa Silvia Rosi, ospitata presso Collezione Maramotti diretta da Sara Piccinini, si inserisce all’interno del vasto cartellone della XIX edizione del Festival di Fotografia Europea dal titolo La natura ama nascondersi, inaugurato a Reggio Emilia il 28 aprile e in programma sino al 9 giugno 2024.
Info:
Silvia Rosi. Disintegrata
28/04 – 28/07/2024
Visita con ingresso libero negli orari di apertura della collezione permanente
Giovedì e venerdì 14.30 – 18.30 – sabato e domenica 10.30 – 18.30
Collezione Maramotti Via Fratelli Cervi 66 42124 Reggio Emilia
tel. +39 0522 382484; info@collezionemaramotti.org
Dopo studi classici, si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, laureandosi in Storia del Cinema presso il DAMS Spettacolo e successivamente in Storia dell’Arte. Ha conseguito un Master in Comunicazione per le imprese culturali. Giornalista e critica, collabora con varie riviste cartacee e online specializzate nel settore artistico e culturale, tra cui Finestre sull’Arte, Segno, Exibart, Zeta-Rivista internazionale di poesie e ricerche, Punto e Linea Magazine, Gagarin Orbite Culturali. Ama l’arte in tutte le sue forme, prediligendo quella moderna, contemporanea e di ricerca.
NO COMMENT