READING

Dispositivi di pluralità. Regina José Galindo e l’...

Dispositivi di pluralità. Regina José Galindo e l’utilizzo della voce per una politica dei corpi

Regina José Galindo presenta, in occasione della mostra El canto se hizo grito (il canto si è fatto grido) da Prometeogallery Ida Pisani a Milano un nuovo corpus di lavori che rimettono in discussione, attraverso pratiche femministe di coralità, la concezione di monumentalità, la dimensione precaria della memoria e la violenza a cui è sottoposta la donna all’interno della nostra società.

AB: Con il tuo lavoro riesci a ritrarre e attaccare direttamente le strutture di potere patriarcali che invadono la nostra società, mettendo in luce le violenze a cui è sottoposta la donna (strutturale, sessuale, fino ad arrivare al femminicidio) e collocando la consapevolezza del fenomeno allinterno della percezione della nostra contemporaneità. Ad oggi, i monumenti presenti nelle piazze non riguardano mai donne assassinate e non fanno parte della “cultura” proposta alla commemorazione pubblica. I tuoi ultimi lavori presentano una certa iconoclastia, volta non tanto per distruggere vecchie immagini, ma a costruire nuovi immaginari a partire da esse. Mi riferisco a Cuatros Sirenas, è così?
RJG. Generalmente i monumenti non si riferiscono alla storia delle donne. Nel caso di Cuatro Sirenas non si trattava della distruzione di un monumento ma dell’intervento (nascondere, far scomparire) su una scultura coloniale con l’intenzione di generare un nuovo discorso. Cuatros Sirenas è una fontana emblematica della città dove vivo: la Antigua. In Guatemala ci sono poche aree sicure, che poi in effetti, ufficialmente, si riducono solo alle zone turistiche, e la mia città è una di queste. Con il proposito di non spaventare i turisti c’è un accordo (quasi un divieto) di parlare di crimini o situazioni di violenza che si verificano qui. Ci sono stati diversi omicidi di donne e i corpi sono apparsi nelle prime ore del mattino, distesi nelle strade di questa pittoresca città coloniale. Il giorno in cui abbiamo fatto l’intervento, una delle quattro sirene è stata uccisa, era l’attivista Maya Tzutujil. Come al solito hanno nascosto il fatto e l’hotel dove è stato trovato il suo corpo ha continuato a operare come se nulla fosse successo. Era febbraio 2020, l’intervento è stato eseguito insieme al mio collega Juan Esteban Calderón. Nascondere le Cuatros Sirenas per mostrare la realtà era la vera intenzione.

AB: Mi è rimasta impressa una frase dell’ultima conversazione che abbiamo avuto: “Anche se parliamo di problemi o situazioni politiche specifiche, dobbiamo capire che, alla fine, i grandi problemi vengono dai grandi mali universali”. In questa performance hai evidenziato le tragedie femminili inserendo un elemento che è tra i più universali, la voce. A causa della sua connessione con il corpo, la voce implica una politica: la politica del corpo particolare che la produce, ma anche di un corpo sociale, culturale, politico e di genere. Le voci, che in questo caso eseguono Quando m’en vo dalla Bohème, compongono un coro che come dispositivo di pluralità incarna lo stare insieme, l’esprimersi in comune, ricodificando collettivamente l’opera del 1800 attraverso una pratica che può essere considerata post-linguistica e che si pone al di fuori della prescrizione maschile della parola. Possono le voci collettive immaginare la rivoluzione del sistema politico?
RJG: La voce è sempre stata un’arma. Le parole sono bombe lacrimogene, missili, granate.  La voce è il grido che rompe e il silenzio che guarisce.  Una sola voce è un tuono, le voci collettive sono la tempesta, capace di spazzare via tutto. La nostra voce non è più una petizione leggera, è un grido feroce che cerca di cambiare queste vecchie e obsolete strutture patriarcali. Voglio sottolineare che la voce e la parola sono armi, che fino a oggi sono state usate dai repressori. Ma non saranno loro ad avere l’ultima parola.  La storia è sempre stata raccontata dai vincitori, ma questo cambierà e la verità sarà la storia dei sopravvissuti. L’idea di coprire i corpi come fiori appassiti, come fantasmi, ha anche lo scopo di forzare la memoria e l’attenzione affinché queste donne assassinate non siano dimenticate. È una specie di rivincita: non scomparire, rimanere presente, fare in modo che non sia così facile per questo sistema patriarcale e misogino sbarazzarsi dei corpi. Non potranno far sparire le nostre storie, non potranno mai far tacere la nostra voce. Nel frammento selezionato della Bohème di Puccini, la donna esprime il suo diritto di camminare per strada.  Oggi lo spazio pubblico è spesso uno spazio di molestie in cui dobbiamo guadagnarci il diritto di passaggio. Cuando me vo è un grido di potere, di forza, di presenza.

AB: Negli ultimi anni il tuo approccio alla performance si sta indirizzando verso un auto-sabotaggio della tua stessa immagine. Se inizialmente ti facevi carico in prima persona della catalizzazione dei drammi riguardanti i soprusi di genere, ora opti per una riconfigurazione dell’immagine di una moltitudine composta da soggettività che ribalta esplicitamente la reificazione della donna, come nel caso della Bohème. Ogni riferimento corporeo sparisce sotto il velo e rimane il problema in evidenza. Come è nata questa concezione?
RJG. Non lo chiamerei autosabotaggio, sono semplicemente altri modi di indagare. Nella serie di lavori nati con Desaparicion de 4 sirenas (2020) uso la strategia di nascondere per rendere evidente.  Sono opere scultoree dove il corpo è subordinato alla sua funzione di forma.  Sono monumenti impermanenti e sculture permanenti. Il corpo perde la sua individualità ma non la sua forza, diventa anonimo e potente. Sono stata molto interessata al lavoro dell’artista tedesco Franz Erhard Walther e alla sua idea di portare la scultura in azione.  Ho cercato attraverso questi lavori di produrre sculture dove la materia prima è il corpo e ho anche adottato i tessuti.  Nel mio caso, naturalmente, ognuna di queste sculture o monumenti porta la carica narrativa che caratterizza il mio lavoro. Io parto dalla parola, sono una poetessa, quindi dietro ogni immagine, dietro ogni azione, c’è una storia da raccontare. Nei monumenti collettivi abbiamo annullato l’individualità delle donne per generare un grido collettivo di lotta. Nel monumento alle donne scomparse (Monumentos a las desaparecidas, 2020) mi interessava mostrare lo spazio occupato da 28 corpi [1], affinché si tenga presente e ci si ponga la domanda: com’è possibile che 28 corpi scompaiano in una settimana in un determinato territorio, come? Questa, però, è la realtà del Guatemala.

AB: Oggi si fatica ad accettare la parola stessa, oltre al problema che la caratterizza. Tra i tanti livelli di lettura all’interno di questa performance collettiva intuisco la necessità per te di darle forma e di intenderla come forza sovvertitrice e produttrice di realtà.
RJG: Come dicevo prima, la voce come arma, la voce come strumento di potere. Abbiamo affrontato situazioni perverse e terribili come il poco peso che viene dato alla nostra voce. Nei procedimenti penali, come nel famoso caso del branco in Spagna, la parola della vittima è ancora messa in dubbio e questo non può più essere permesso. Parlare di questo è molto importante per me, perché vengo da un Guatemala molto violento dove però abbiamo una legislazione di genere dal 2008. Questa legislazione, purtroppo, non è rispettata perché gli operatori della giustizia continuano a operare secondo logiche misogine e patriarcali, ma il fatto che almeno la legislazione esista ci fa sperare che tra una o due generazioni sarà rispettata. Al contrario, molti paesi del mondo occidentale non hanno nemmeno una legislazione adeguata, e possiamo prendere la Germania come esempio. Come aneddoto posso dirvi che nelle lingue maya, come in altre lingue native, le parole “stupro” e “omicidio” non esistono, sono crimini e termini arrivati con la colonizzazione e la conquista. Quando una donna dà la sua testimonianza in lingua maya, deve usare lo spagnolo per nominarli. È necessario capire che la violenza sui corpi delle donne ha radici profonde nel sistema economico capitalista, che a sua volta nasce nel mondo colonizzatore. Quando inizia la proprietà della terra, inizia la proprietà dei nostri corpi e quindi anche la violenza contro di noi. C’è ancora un rifiuto delle nostre lotte come femministe perché il problema del patriarcato non è stato pienamente compreso. La nostra lotta non è solo per noi, ma combattiamo per tutti i corpi vulnerabili, subordinati ad altri in un rapporto di potere ineguale. È una lotta anche per gli uomini che sono stati violentati, per i bambini sfruttati, per gli uomini che sono stati aggrediti, per quelli che devono andare in guerra. Il patriarcato è un sistema economico oppressivo ed è il nostro nemico, il machismo è solo la punta dell’iceberg. Chi non capisce che il patriarcato sostiene il capitalismo non capisce la nostra lotta. Una lotta che affrontiamo come corpi periferici: ragazze, donne, donne trans, uomini trans, ragazzi trans, individui che non si riconoscono all’interno dell’eteronormatività, uomini e donne che economicamente non appartengono a un gruppo di privilegio, ecc. In questa mostra parlo del Guatemala femminicida con l’intenzione di parlare di un’Europa femminicida. L’intenzione del progetto è mostrare una realtà che attraversa il mondo e smentire la falsa convinzione che la violenza contro le donne sia esercitata dalla popolazione migrante: in paesi come l’Italia, la Spagna o la Germania il 70% dei crimini sono commessi da uomini europei contro le loro partner europee.

AB: So che anche il tuo nome deriva da questa concezione della parola, potresti parlarmene?
RJG: Fin da bambina avevo compreso che essere un uomo aveva certi privilegi perché vedevo che i miei tre fratelli maggiori godevano di più libertà. A dodici anni ho chiesto a mio padre, che è avvocato, di cambiare il mio nome e lui ha accettato, è arrivato portando in regalo il documento che formalizzava il cambio di nome.

Arnold Braho

[1] Il lavoro si riferisce ad avvenimenti accaduti in Guatemala, dove nel 2020 si è arrivati al picco di 28 donne scomparse in una settimana. Alla luce del sole.

Info:

www.prometeogallery.com

For all the images: Regina José Galindo, “El canto se hizo grito”, installation view at Prometeo Gallery Ida Pisani, Milan-Lucca, 2021. Ph. Filippo Ferrarese, OKNO Studio, courtesy Prometeo Gallery Ida Pisani


RELATED POST

  1. Myron Alberto Ávila

    31 Luglio

    Regina José Galindo è indiscutibilmente tra le più grandi voci della sua generazione artistica. La sua traiettoria parla a voce alta del suo impegno permanente nel denunciare le molteplici, storiche violenze sul corpo femminile e, per necessaria estrapolazione, sul corpo di una nazione. Una voce potente, distintiva e giustamente arrabbiata nel campo delle arti del Guatemala.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.