Se non vi foste ancora imbattuti nel profilo Instagram di uno dei più influenti protagonisti del mondo dell’arte, allora digitate Hans Ulrich Obrist e fatevi stupire dai contenuti della sua pagina. Critico e storico dell’arte, ma soprattutto curatore, come ce ne sono pochi e forse, nel suo genere, potrebbe dirsi unico, Obrist sa usare i social per promuovere l’arte, riuscendo nell’arduo compito di dominarli senza esserne dominato. Uno dei contenuti che ha pubblicato durante il 2020, e che continua a proporre quest’anno, si chiama “Do it” e nasce da una conversazione avvenuta nel 1993 con gli artisti Bernard Lavier e Christian Boltanski sulla possibilità di mettere in scena una performance sulla base di istruzioni scritte da artisti e interpretate da altri.
Obrist considera la conversazione una scuola permanente da cui attingere informazioni, ma anche un importante contributo al mondo dell’arte, tanto che registra i suoi dibattiti e li pubblica nel volume “Infinite Conversations” per Fondation Cartier. In questo caso, a partire da una conversazione, “Do it” prende forma e nel 1995 le istruzioni degli artisti chiamati da Obrist vedono una prima pubblicazione, mentre nel 2020 vengono riprese per una nuova e ampliata edizione.
Non a caso “Do it” viene riproposto in questo ultimo anno in cui le mutate condizioni di vita fanno sì che il rapporto con l’arte sia notevolmente cambiato: l’esperienza diretta spesso non è più possibile e perciò musei e gallerie si sforzano di rendere accessibili i propri contenuti online tramite infinite e indifferenziate rassegne di immagini e video. Il mondo dell’arte è spinto a ripensarsi e a rinnovare la sua offerta sia cavalcando la rivoluzione digitale e sia modificando i propri contenuti.
“Do it”, scaricabile gratuitamente online e postato periodicamente da Obrist su Instagram, è un progetto che vuole rivedere il rapporto fra pubblico e arte. Un rapporto in cui il primo ha spesso un ruolo passivo. Qui invece diviene protagonista. É il pubblico a dare senso al progetto. L’attenzione si sposta dal cosa al chi, come, dove e quando. Mi spiego meglio: “Do it” coniuga i verbi alla seconda persona singolare. Anche se non conosce il suo interlocutore, gli dà del tu. Lo fa sentire speciale, partecipe, protagonista, ma anche complice in dialogo con l’arte.
Chi si imbatte nelle istruzioni può decidere se leggerle con gli occhi o ad alta voce, per curiosità o se interpretarle divenendo davvero parte dell’opera. Il protagonista, colui che interpreta il progetto in modo personale e quindi unico, facendolo suo, può definirsi performer part-time senza bisogno del consenso del sistema. Può scegliere se e eventualmente con chi interpretarlo o davanti a quale pubblico. Come farlo e con quale attitudine. In quale luogo e quale tempo. E scegliere se condividere il risultato sul web.
Si tratta quindi di un progetto che vuole mettere in discussione i ruoli, ma anche il contenitore dell’arte, non più gallerie, musei, non il contesto urbano della street art, ma potenzialmente qualunque luogo: né i luoghi deputati alla cultura né quelli della controcultura, ma la casa, un giardino privato, una stanza condivisa con un coinquilino, la hall di un hotel, un balcone. L’artista che scrive le istruzioni e il curatore che ha pensato il progetto non sono più padroni del risultato che questo avrà e neppure sono consapevoli di dove e quando avverrà la performance.
Al contrario, lo è il pubblico. Un pubblico probabilmente di addetti ai lavori, di artisti emergenti, di studenti o di curiosi. Diverte pensare che chiunque possa farsi performer per un giorno, un’ora o alcuni minuti e che non ci siano più coordinate per l’arte: gli attori del processo non possono più darsi appuntamento in un dato luogo a una data ora per assistere alla performance, ma questa sfugge alla loro pianificazione. Il pubblico si fa protagonista dell’opera d’arte. L’arte e la performance in modo particolare assumono un aspetto ludico e coinvolgente, come spesso accade nelle mostre del curatore svizzero.
Le istruzioni possono farci vivere un’esperienza artistica, ma possono anche semplicemente farci sorridere immaginandola, specialmente in questo momento di crisi planetaria in cui è stimolante scoprire nuovi e diversi modi di fare arte e accorciare le distanze tra artisti e spettatori. Obrist incoraggia un contatto tra questi due mondi e cerca una loro contaminazione, uno scambio di ruoli che favorisca la nascita di nuove prospettive per l’arte dal punto di vista espressivo e fruitivo. Fin dalla sua prima mostra curata alla Serpentine Gallery di Londra, “Take me (I’m yours)”, Obrist ha cercato di inventare nuove modalità e di creare esperienze straordinarie per sorprendere il pubblico, permettendogli di interagire con le opere. Inoltre con “Do it” si consolida sempre più il sodalizio con gli artisti che diventano complici del curatore nell’ideazione delle opere e delle esperienze artistiche e nella ricerca persistente del superamento delle consuetudini e delle regole che caratterizzano il sistema dell’arte.
Vittoria Silvaggi
Info:
Kemang Wa Lehulere – Do it N. 132
Kolar Jiri – Do it N. 121
Marina Abramovic – Do it N. 64
Cover image: Hito Steyerl – Do it N. 134
Nata a Roma nel 1992, ha conseguito una laurea in Architettura all’Università degli Studi di Roma La Sapienza con una tesi in Progettazione architettonica e urbana. Si interessa di arte e architettura e delle loro reciproche contaminazioni.
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