Raffinata, bibliofila e colta: questi sono gli aspetti che traspaiono dalle opere di Giulia Marchi (1976, Rimini), artista che presenta una distintiva esperienza estetica come atto di equilibrio sfiorante il concettuale; pratiche caratterizzate da un sostrato di letteratura, e accompagnate da un’indagine sulle caratteristiche fisiche e mnemoniche dei materiali. Un vocabolario plastico, in altri termini, che trova la sua ragion d’essere nell’amore verso la scrittura e le materie cartacee, elementi che, nel loro insieme, svelano una conoscenza onnivora dell’artista motivata dal suo instancabile spirito di ricerca umanistica. Una tale inedita indagine è ben riepilogata nella personale a lei dedicata, Una pietra sopra, presso la galleria Matèria di Roma, dal 19 febbraio al 7 maggio 2022, seguita da un testo del critico letterario Andrea Cortellessa. Ciò che colpisce è come tutte le sopra accennate arterie d’analisi si canalizzino verso una rassegna dal cuore pulsante, distinta da una dissimulata maestria artistica che viene sempre celata da una eleganza sopraffina. A tal riguardo, sovviene quanto espresso nell’asserzione Ars est celarem artem[1], secondo cui la bravura di un artista, qual è quella indubbiamente attribuibile a Marchi, risiede nel trovare un pacato equilibrio tra grazia espressiva e un vigoroso contenuto.
L’esposizione, nel complesso, si presenta come un’accurata interlocuzione concepita lontano dai format espositivi, volti, talvolta, ad assecondare un mero desiderio di intrattenimento; di contro, il progetto artistico di Marchi è curato con un taglio critico e filologico di sicuro spessore: ed ecco quindi la misurata finezza e l’accurata attenzione verso i particolari, esiti ideati nel corso di un anno di comune lavoro e costante dialogo tra il gallerista Nicolò Fano e l’artista, sempre sostenuto dalla Gallery Manager Rossana Esposito. La mostra è un riuscito spill over a favore della ricerca dell’artista le cui opere, tutte inedite, sono state ideate a partire da oggetti tratti dal proprio materiale d’archivio. La retrospettiva induce, con una chiarezza pari alla suggestione visiva, un’immaginifica lettura del racconto sincronico di una doppia pagina creativa, atta a collegare il passato al presente, in cui è pregnante un anelito d’amore verso il denudamento fisico dei materiali usati. Così, mantenendo tale approccio, scaturisce un genere spurio e ribelle verso qualsiasi codificazione artistica, capace com’è Marchi di unire la manualità, a tratti programmatica, a un ragionamento nitido e concreto verso la storia di ogni oggetto inglobato nelle sculture, frutto di un’intensa e riuscita laboriosità mentale caratterizzata da una estrosa destrezza e naturalezza. Connessione artistica che richiama l’interesse dello spettatore affascinato, si è certi, dai particolari formali delle opere, quali, ad esempio, la carta cinese Xuan di 30 gr (utilizzata più di 1500 anni fa nella Cina imperiale per trascrivere le leggi), sino ad alcune valutazioni di contenuto, come quella di scegliere citazioni desunte dal filosofo Platone sino allo scrittore Emilio Villa per i titoli dei suoi lavori. A questo punto, non paia troppo assurdo pensare come l’approccio ideativo di Marchi sia caratterizzato da un purovisibilismo[2], giacché i lavori rivelano un’esistenza più profonda di quella concessa di scoprire con i propri sensi, prova ne sia l’opera composta da fogli Xuan, che celano una trascrizione a matita, che ne ricalca il titolo, Quaranta righe più due metri cubi d’aria, composta da una scrittura apparentemente invisibile e percepibile solo se si esegue una leggera pressione sui fogli.
Seguendo le interessanti sezioni dell’itinerario espositivo, occorre far cenno alla particolare scultura che lambisce lo spazio della galleria secondo un amabile equilibrio: la lingua flessuosa in acciaio corten, che si lega visivamente alla soda sfera in marmo bianco di Carrara, si pone quale inedito paralogismo spaziale poiché i due elementi, pur non toccandosi, fanno evincere una virtuale e vibrante tensione. Proprio quest’ultima cifra personale è una constante di tutte le opere: Marchi risulta capace, con inequivocabile avvedutezza, di indagare senza sosta le particolari trazioni che si possono instaurare tra i vari elementi spaziali della galleria, ideando così opere come atti di un’arte d’environment indoor. Così l’artista segna una nuova dilatazione percettiva di Matèria, mitigandone la particolare conformazione a imbuto e facendole assumere fantasiose nuove forme. In particolare, nell’opera L’infallibilità è rigorosamente monocroma, l’unità del pilastro centrale della galleria si ritrova sotto la forma di una colonna trasparente contenente gomitoli di lana dai dorati riflessi, tanto che la sistemazione spaziale diventa il fine per la creazione, mentre la scultura risulta il mezzo: l’architettura e l’arte scultorea si completano in un’omogeneità di specie, e le zone spaziali specifiche mutano a dominio dell’opera, frutto di un lavoro ideato a partire dal materiale base.
Altro elemento di interesse della retrospettiva è il costante ed eterogeno uso della carta che si confronta con l’aspetto formale dell’artista, tant’è che torna in mente l’interessante e significativa riflessione di Ettore Sottsass circa la concezione architettonica del muro – che risulta il medesimo approccio di Marchi – secondo cui «i muri possono essere pagine bianche ed aperte, possono essere letti con storie di una moltitudine passata ed antica»[3]. Avendo ben salda in mente tale descrizione si può intendere come le due sculture composte da pile di carta, a modulo continuo di 60 gr disposte su strutture filiformi in ferro, si presentino come “muri” dal carattere antitetico. Ecco, quindi, una gabbia in ferro che custodisce risme di carta, mentre l’altra è un tondino ferreo che trattiene, secondo un apparato regolato da un calibrato sistema di equilibrismi, un foglio svolazzante segnato da grafemi, in modo che la grammatica diventa forma viva e trasmettitrice di emozioni. Il tutto è giocato su una monocromia duale che rivela l’aspetto più sensuale della carta, così distanze, pesi, intervalli, misure e grammature diventano tutti elementi fondamentali per la riuscita di entrambe le opere.
Diversamente, gli oggetti d’archivio, che vivono con l’artista sin da quando era bambina, compaiono nelle sculture minimali, finemente allestite su mensole espositive, risultano essere gli esiti di uno studio sospinto dal desiderio di creare strambi equilibrismi caratterizzati da un legame magico dai sentori surreali e rivelatori di un micro-ordine che si annuncia gerarchicamente connesso a un ordine ancor più grande. A voler intendere tali sculture come esemplari di un equilibrio naturale in cui tutto è concatenato, è possibile evocare il pensiero di Galileo Galilei secondo cui «non puoi cogliere un fiore senza turbare una stella». Così, in queste soffuse tensioni si creano singolari combinazioni protese a indagare l’aspetto duttile e gravitazionale dei materiali, dimostrando, al contempo, un ragionamento diligentemente animato da un sommo studio dell’artista che si evince sia nei delicati acrobatismi, sia nelle grafie tratteggiate a matita con un corsivo libero e automatico. Da tutto ciò emerge, con indubbia certezza, la regola artistica di Marchi, sintomo di un ornamento inapparente ma anche di una ricerca svincolata, istintiva e colta: in altri termini, ci giunge un’arte capace di celare, con una raffinata disinvoltura, sé medesima.
Info:
Giulia Marchi, Una pietra sopra
19/92/2022 – 23/04/2022
Matèria
Via dei Latini 27, Roma
www.materiagallery.com
[1]Tale espressione compare nella letteratura artistica del Seicento nel testo di Ludovico Dolce, L’Aretino. Dialogo della pittura. Su questo particolare tema, si veda l’acuta pubblicazione di Paolo D’angelo, Ars es celare artem, Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, 2016, in particolare, p. 64.
[2]Andrea Pinotti, La sfera della figuratività̀: Brandi, Fiedler e il “purovisibilismo”, in Attraverso l’immagine. In ricordo di Cesare Brandi, a cura di Luigi Russo, 2006, p. 97.
[3]Ettore Sottsass, Di chi sono le case vuote?, a cura di Matteo Codignola, Piccola Biblioteca Adelphi, 771, 2021, p. 133.
Giulia Marchi, Una pietra sopra, 2022, exhibition view, Matèria, Roma. Ph. Roberto Apa, courtesy l’artista e Matèria
Giulia Marchi, Quaranta righe più due metri cubi di aria, 2022. Carta cinese Xuan 30 gr, dimensioni variabili. Ph. Roberto Apa, courtesy l’artista e Matèria
Giulia Marchi, L’infallibilità è rigorosamente monocroma, 2022. Lana, cm 195 x 39.5 x 61. Ph. Roberto Apa, courtesy l’artista e Matèria
Giulia Marchi, Ricettacolo delle forme #03, 2022. Marmo bianco di Carrara, marmo rosa del Portogallo, vetro. Ph. Roberto Apa, courtesy l’artista e Matèria
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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