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Elena Modorati. La realtà è in ciò che non si vede...

Elena Modorati. La realtà è in ciò che non si vede

Nonostante le restrizioni dovute alla pandemia, prosegue con coraggio il programma espositivo di Gaggenau DesignElementi Hub Milano, sviluppato in collaborazione con Cramum e animato dalla volontà di mettere in relazione i propri spazi con l’arte contemporanea attraverso mostre di artisti impegnati con diversi media e tematiche. Il 10 dicembre è stata inaugurata con un vernissage digitale in live streaming la personale di Elena Modorati intitolata “Resti” e curata da Sabino Maria Frassà, che sarà visitabile in presenza previo appuntamento fino al 26 febbraio 2021. Il progetto conclude idealmente il ciclo “On-Air” ideato dallo stesso Frassà e incentrato sulla rappresentazione del tempo intesa come unione di passato, presente e futuro. Come si evince immediatamente dal titolo della mostra, questi temi sono centrali anche nella poetica dell’artista milanese, che realizza opere basate sulla paziente sovrapposizione di strati di cera, carta seta e carta riso che custodiscono e trattengono labili oggetti, disegni e parole manoscritte. La sua riflessione, come sottolinea il testo critico del curatore, si concentra sull’ambiguità dell’esistenza umana in bilico tra finito e infinito, tra unicità e caducità e affronta l’accettazione della dispersione dell’individualità nell’infinito del tempo nella fiducia che prima o poi il senso più profondo di ciò che siamo stati possa riemergere.

Emanuela Zanon: Nella tua biografia leggo che ti sei laureata in filosofia all’Università degli Studi di Milano. Come ha influito sulla tua pratica creativa questa formazione culturale?
Elena Modorati: La formazione teorica incide inevitabilmente sul lavoro, ma costituisce in qualche modo un’attività parallela: c’è una consapevolezza interna al fare, con una propria logica misteriosa, che è, ai fini dell’arte, molto più cruciale. La parte teorica di rielaborazione concettuale interviene sempre a processo già avviato e, soprattutto, a posteriori e diventa un elemento che mi interessa tanto quanto la dimensione operativa, perché è uno strumento gnoseologico. La mia formazione e anni di “pratica” mi forniscono poi quegli strumenti di (ri)lettura, quella consapevolezza che mi permette di mantenere alta la soglia di vigilanza su possibili vizi e derive.

La componente essenziale dei tuoi lavori, che tu suddividi in ScritturePaesaggi e Oggetti è la cera, materia viva, trasparente ed estremamente fragile. Quali significati attribuisci a questo materiale e per quali caratteristiche visive e tattili ti affascina?
In “Resti” la cera non è la sola materia impiegata: metà delle opere in mostra sono in carta, metallo e per la prima volta in creta. Vero e innegabile è però che la cera caratterizza molto la mia ricerca artistica sin dal 2007. La scelta è nata per banale corrispondenza viscerale e per uno scopo altrettanto banale, ossia velare la scrittura. In realtà, nel tempo, il lavoro mi ha mostrato una densità di senso che non avevo affatto previsto. La cera infatti funziona come una nebbia, o meglio come una membrana diafana: la superficie dopo esser stata levigata e lucidata assume una parvenza epidermica, che, interagendo con la luce, sfuma i confini. La cera infatti da un lato riflette e restituisce luce all’ambiente, dall’altro assorbe e incamera la luce: le singole tavolette si intitolano Stanza proprio perché la cera suggerisce una profondità, uno sfondamento, addirittura una sorta di polarizzazione attrattiva, un risucchio, al suo interno. Si istituisce quindi, da un punto di vista semplicemente fisico, una relazione mobile o ambigua. Questa ambiguità è, concettualmente, il punto centrale della mia ricerca: per anni ho creduto di lavorare sul limite della conoscenza, sull’impossibilità per il pensiero di rendere in trasparenza l’opacità del reale. La cera, in effetti è emblematica di questa opacità e, a un certo punto, mi ha mostrato come io sbagliassi prospettiva: la nebbia, la “membrana” che avvolge il reale non è un impedimento ma un tramite, un tessuto connettivo di cui ogni cosa è parte, che, anzi, sostanzia ogni cosa; non un velo da strappare ma un interstizio vitale grazie al quale ogni singolarità è legame, estasi, e anche vivo mutamento… In sintesi, la cera mi ha evidenziato la centralità della relazione e smascherato il concetto di identità.

La serie di paesaggi intitolati Capricci è composta da minimali composizioni di rovine che abbozzano ambienti su piedistalli di in cera. Qui gli elementi figurativamente caduchi – le rovine – sono costituite sia in cera sia in materiali durevoli, come il marmo, il gesso o la pietra, mentre i basamenti che ne dovrebbero eternare la fama sono di molle cera. Cosa vorresti dirci a riguardo?
I Capricci, come appunto cita il titolo, sono paesaggi fantastici con rovine immaginarie; lo sforzo è che la dimensione lillipuziana – ho una passione miniaturista, oltre che archeologica… – riesca comunque a costituirsi come luogo, per quanto solo della mente. Ciò mi pare avvenga grazie a un accorgimento, ossia al raccordo fra il “terreno” (la base) o anche il livello dell’orizzonte e le “costruzioni” o, più semplicemente, “emergenze”. Di fatto si tratta ancora del rapporto figura-sfondo o ambiente, essenziale appunto perché un luogo “avvenga”. Per quanto riguarda i materiali, non c’è nessuna distinzione gerarchica, solo un gioco di rispecchiamenti, mimetismi e ambiguità… un concetto che in effetti torna frequentemente nel mio lavoro. Poi l’opera vive negli occhi dello spettatore e anche questa domanda sulle fondamenta in cera mi affascina e fa riflettere. In ogni caso a posteriori dopo i primi esemplari realizzati nel 2018 (ndr. in mostra anche “Scavo”, opera inedita in cera nera realizzata nel 2020), mi sono accorta che i Capricci rispecchiano e manifestano l’idea di Benjamin che il presente sia attualizzazione della storia e che il filo rosso non sia tanto negli elementi che perdurano quanto nelle loro lacune, spazi di desiderio e possibilità. Non a caso questo corpo di opere è centrale in questa mostra che si inserisce all’interno del ciclo “On-Air” ideato dallo stesso curatore (Frassà, ndr.) per riconsiderare il tempo e la sua interazione con la storia umana: così il Capriccio “Rocchi” che presenta impossibili resti di colonne in gesso, cera e calcare è stato volutamente collocato dal curatore di fronte a una parete di finti mattoni che caratterizza lo spazio Gaggenau. L’arte, attraverso una finzione, ci fa percepire la vera essenza del tempo.

Proprio il concetto di tempo sembra esser trasversale nel tuo lavoro, come emerge anche dal ruolo della scrittura nelle tue opere: spesso si notano sottili fogli di carta seta o riso immersi in spessi strati di cera, altre volte coperti da altri strati di carta, a comporre una sorta di diario, la cui lettura è per sempre preclusa sia allo spettatore e sia all’autore delle parole. Ciononostante, nella successione e composizione di questi pezzi singoli e anche all’interno di ciascuno di essi, si percepisce una sotterranea scansione temporale che prosegue oltre alla constatazione dell’impossibilità di leggere. Come si rapportano con la dimensione del tempo i tuoi lavori?
La scrittura già da sé impartisce un ritmo e determina una scansione dello spazio (il foglio) e del tempo (il tempo “progressivo” della scrittura). La grafia, poi, è racconto, storia intima, mentre si identifica la nascita della Storia con l’avvento della scrittura. Soprattutto, la scrittura è trasmissione ma, come le lacune dei Capricci, la cera e le velature ne silenziano il rumore. La scrittura è ridotta a traccia, brusio, parola fantasmatica. Da dove arriva questa parola senza appartenenza (non solo il “chi parla?” è irrilevante, ma la parola non appartiene più a sé stessa, si sfuoca, trasfigura…), o, è identico, dove va scomparendo? Il tempo intimo e il tempo codificato sono paradossalmente sovrapposti nell’esautorazione; si intuisce l’“on-air”, un terzo tempo, un fuori-tempo in cui l’arco di passato-presente-futuro è condensato e annullato insieme. La “galleria” centrale all’interno dello spazio Gaggenau accoglie così cinque opere dal ciclo Calendari, che ho cominciato a realizzare nel 2013: pensieri, riflessioni intime e personali sono raccolte in modo diaristico per poi essere celati alla lettura del pubblico, ma anche al mio ricordo. La scrittura diventa puro “segno” di un vissuto intimo per forza di cose “cronologico” che condivido ma non ostento mai in modo pornografico. Questa impossibilità di aprire le caselle di queste opere – ispirate ai “calendari dell’avvento” – richiama anche il tema del tempo come attesa: è il mistero della realtà a sorprenderci costantemente ed è forse un errore il nostro continuare a volerlo anticipare. Quindi sì il tempo è inevitabilmente uno dei Temi del mio lavoro.

La scintilla che ti dà la prima ispirazione quando concepisci un nuovo progetto è una parola, un’immagine, una forma o un concetto?
I progetti nascono da occasioni diverse e qualunque cosa può mettere in moto il processo. Certo, nel tempo mi accorgo che le questioni intorno a cui il lavoro gira sono sempre le stesse, in una specie di danza di accerchiamento, in cui mi sembra di mettere a fuoco sempre meglio, ma forse è solo che si cambia prospettiva, inquadratura, e in qualche modo i risultati valgono anche tutti per sé stessi, per quella prospettiva specifica, per quel momento, e nell’insieme, come una catena discontinua… Certo è, come accennavo all’inizio, che quando poi si tratta di materia e spazio tanti pensieri vengono messi fuori, è un altro regno, e l’immagine, la forma, con un portato arcaico, elementare, di corpo, conducono il gioco.

I tuoi lavori sono dispositivi sensibili che invitano alla meditazione e comunicano a prima vista impressioni di armonia e pacificazione. Tuttavia, a uno sguardo più prolungato, sotto la sottile pelle che incapsula le superfici, si avverte l’agitarsi di tensioni che potrebbero sovvertire da un momento all’altro l’equilibrio formale. L’inaspettato è per te un’emozione o un accadimento?
Il mio lavoro incontra continuamente l’ambiguità per cui oscilla, è teso, e tuttavia registra anche una dimensione di assolutezza puntiforme, effimera, magica anche. L’inaspettato è tutto, perché è l’inedito, dunque il reale, sempre.

Info:

Elena Modorati. Resti
a cura di Sabino Maria Frassà
11 dicembre 2020 – 26 febbraio 2021
Gaggenau DesignElementi Hub
Corso Magenta 2 (Cortile interno)
dal lunedì al venerdì, ore 10:00-19:00.
Per visitare la mostra è necessario fissare un appuntamento scrivendo a: infocramum@gmail.com, gaggenau@designelementi.it o telefonando al +39 02 29015250 (interno 4)

Digital preview: https://vernissage.gaggenau.comunicamedia.it/resti/virtualtour/

Ritratto di Elena Modorati al lavoro

Elena Modorati Rocchi Capricci 2018Elena Modorati, Rocchi dal ciclo Capricci, 2018, © Francesca Piovesan, Courtesy Cramum e Gaggenau

Elena Modorati, Giardino Magico dal ciclo Capricci, 2018, © Francesca Piovesan, Courtesy Cramum e Gaggenau

Elena Modorati, installazione mostra Resti, Ciclo Capricci, 2018-2020 © Francesca Piovesan, Courtesy Cramum e Gaggenau

Elena Modorati, 20 giorni dal ciclo Calendari, 2013, © Francesca Piovesan, Courtesy Cramum e Gaggenau

Elena Modorati, dettaglio 12 giorni dal ciclo Calendari, 2013, © Francesca Piovesan, Courtesy Cramum e Gaggenau

Elena Modorati, Resti. Installation view at Gaggenau DesignElementi Hub Milano © Francesca Piovesan


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