…il re del tempio,
Apollo l’obliquo,
coglie la visione
attraverso il più diritto
dei confidenti, l’occhiata
che conosce ogni cosa.
Le menzogne lui non afferra,
né dio né uomo lo inganna
con opere o con disegni.[1]
E se oggi Apollo fosse una donna? E se avesse le sembianze di un’artista?
Attraversando la mostra ECO. Opere di Enrica Borghi, a cura di Lorella Giudici, al Castello Visconteo Sforzesco di Novara, ci si potrebbe porre questa intrigante domanda.
Niccianamente parlando, Apollo è il dio della visione, della luce, del sogno, dell’illusione e della bella forma. Nella concezione greca dell’arte e della cultura il principio apollineo dialoga, si confronta e talvolta si scontra, con la dimensione del dionisiaco, con il fondo caotico e disordinato della vita, con il suo procedere irrazionale e tumultuoso. Da una parte quindi l’aspetto illogico e istintuale dell’esistenza, dall’altra il desiderio di una messa in forma, del limite. Apollo, sintetizzando ai minimi termini, è colui che riesce a incanalare positivamente la straordinaria e possente forza vitale di Dioniso.
L’armonica limpidezza delle Veneri di Enrica Borghi, la scintillante sontuosità del grande abito da sera blu (Grande Soirée), la delicata compostezza del Muro fatto di croci, a loro volta formate da piccole palline rivestite dalla carta in alluminio dei cioccolatini, il prezioso equilibrio cromatico degli Arazzi, l’attraente maestosità dell’Architettura di luce, sembrano trasmettere il bisogno di una messa in forma di un mondo che è originariamente dionisiaco. E’ come se l’artista partisse da uno sguardo gettato sul fondo più oscuro e contraddittorio del vivere quotidiano, sull’orgia incessante e pazza della produzione capitalistica che crea all’infinito, senza sosta e senza pace.
Enrica Borghi guarda in faccia il reale, nella sua insensatezza, nel suo delirio di onnipotenza consumistica, nella sua tracotante mania di accrescimento. L’artista focalizza la sua attenzione sull’infinita montagna di scarti e di rifiuti che la danza orgiastica del capitalismo contemporaneo deve produrre per poter sopravvivere. Le sue opere sono infatti realizzate grazie all’utilizzo di materiali d’imballaggio, soprattutto plastici, come bottiglie, sacchetti, tappi e unghie finte. Dioniso vuole solo la vita che pulsa e canta, il godimento sfrenato, l’ebbrezza coribantica del momento, la soddisfazione immediata degli istinti e delle pulsioni. Nella società contemporanea questo soddisfacimento acefalo viene promesso dal mercato e dai suoi prodotti. Dietro questa promessa resta però una scia terribile di distruzione, di inquinamento, di rifiuto e di scarto. L’atteggiamento di Enrica Borghi è apollineo proprio perché getta luce su questa dinamica mortifera, l’artista se ne fa carico, prende le macerie e si mette a creare. Il non-senso si trasforma, come d’incanto, in senso. Il dis-valore diventa valore.
Il desiderio che emerge è di trasfigurazione, di trasformazione. Si potrebbe dire che l’esigenza profonda dell’artista è proprio quella di sublimare il caos nella forma, è il tentativo meraviglioso di ridare dignità a ciò che sta sull’orlo dell’abisso e della sparizione. E’ anche un atto straordinario di libertà e di resistenza. Enrica Borghi libera infatti i materiali dal loro destino effimero e meccanico, e sottraendoli dal circolo vizioso della produzione infinita, dona loro una seconda vita, li proietta in una dimensione altra e diversa, luminosa e vitale, quella dell’arte. La sofferenza, la crudeltà e l’insensatezza diventano occasione di rinascita. All’interno di questo processo lo spettatore viene trasportato e trascinato lungo un sentiero di cristallina bellezza e meraviglia.
La mostra diventa un viaggio all’insegna dello stupore. Ci si stupisce soprattutto che da oggetti così umili e semplici, denigrati e rifiutati, possa nascere un mondo tanto ricco e poetico, attraente e seducente. Com’è possibile che sull’orlo dell’abisso consumistico fiorisca una visione estetica così travolgente?
Non è semplice dare una risposta univoca a questa domanda. Forse la grandezza artistica dell’opera di Enrica Borghi risiede nella sua capacità di vedere, e di far vedere, con estrema lucidità, le contraddizioni e i paradossi della società contemporanea in cui vive, di farsene carico, provando a rendere vivo ciò che sembra morto. Questa presa di coscienza diventa per lei una sfida, un compito, uno stimolo di creazione e di trasformazione, è l’occasione per dare nuova forma e prospettiva al flusso incoerente dell’esistenza. Quando tutto sembra perdersi e dissolversi in un turbinio di sprechi e insensatezze, l’artista inverte la rotta, segnala nuovi itinerari di navigazione, tiene tra le sue abili mani i resti di un mondo al confine della dissolvenza e, partendo da questi resti, traccia nuove mappe, cariche di energia e speranza, misteriose e apollinee, radiose e lucenti.
Andrea Grotteschi
[1] Citazione tratta da G. Colli, La Nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975.
For all the images: ECO. Opere di Enrica Borghi, installation view at Castello Visconteo Sforzesco di Novara
Andrea Grotteschi (1987) vive e lavora tra il Lago Maggiore e Milano. Si laurea in Estetica all’Università Statale di Milano nel 2013. Dopo gli studi inizia la sua attività curatoriale nell’ambito dell’arte e della cultura contemporanea, collaborando in particolare con l’associazione culturale Asilo Bianco. Ha curato progetti espositivi e culturali a livello pubblico, come Studi Aperti Arts Festival (2015, 2016) e Sor’riso Amaro. Il lavoro e la risaia, visioni contemporanee (2017). Dal 2018 lavora come curatore indipendente e critico.
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