READING

Ernesto Bazan. L’occhio interno della fotografia

Ernesto Bazan. L’occhio interno della fotografia

Molti sono i fotografi che accompagnano e completano la loro professione con l’insegnamento. Ma spesso i numerosi workshop che popolano i Festival non sono il lascito, l’eredità, né tantomeno la condivisione di un’esperienza destinata a germinare nei partecipanti. L’insegnamento è vocazione e formazione continua – si dice – e come tale si nutre di condivisione e generosità. Il fotografo internazionale Ernesto Bazan ha fatto del suo insegnamento la costruzione di una famiglia allargata: gli studenti che partecipano ai suoi workshop sono gli amici che selezionano gli scatti durante l’editing e i layout. Sono i punti di un disegno che tocca le capitali del mondo. Ogni workshop di Bazan, che oggi dopo la lunghissima esperienza a Cuba vive a New York, è comunione spirituale, educazione all’occhio interiore per una sensibilità d’approccio alla realtà.

Simone Azzoni: Tu ami insegnare tanto quanto scattare fotografie. Essere insegnante ed essere fotografo sono due esperienze complementari che costruiscono una comunità educante…
Ernesto Bazan: È un altro regalo che ho ricevuto dalla vita, prima il dono di diventare fotografo e poi improvvisamente, questa nuova necessità. All’inizio pensavo sarebbe servita ad aiutarmi economicamente: lavoravo per le riviste e volevo affrancarmene perché ero stanco di fare il free lance. Poi mi sono reso conto che stavo creando una grande famiglia allargata, e anche oggi alcuni dei miei studenti sono tra i miei migliori amici. La didattica è nata in maniera intuitiva. Nessuno mi ha “insegnato a insegnare” fotografia. Sono arrivati miracolosamente i primi otto studenti a L’Avana e poi questo iniziale gruppo si è espanso con altri ragazzi in Perù, in Sicilia, in Messico.

Oggi cosa insegni, qual è l’obiettivo dei tuoi corsi e cosa vorresti che rimanesse nel cuore dei tuoi studenti?
Insegno a guardare con l’occhio interno, quello collegato alla nostra anima. Solamente con questo si possono cogliere i sentimenti, quelle sensazioni che riescono a carpire la quintessenza del nostro vivere. Ribadisco, il tesoro più grande che posso condividere e lasciare è questo insegnamento, ma anche l’amicizia molto profonda che mi lega a tanti dei miei studenti.

Insegni anche che cosa rende una fotografia “una bella fotografia”…
Dico sempre che affinché una fotografia sia una bella fotografia deve coniugare contenuti e forma, se uno dei due aspetti venisse a mancare, la fotografia è destinata a non diventare una bella fotografia. Insisto molto su questo argomento. Se guardiamo la storia della fotografia c’è sempre un connubio sottile tra forma e contenuto. Le fotografie con molta forma sono eleganti ma fine a sé stesse e fotografie senza forma sono fotografie descrittive che non vanno al di là della mera cronaca della realtà. Un’immagine, indipendentemente dal soggetto o dal genere, deve parlarci. Se ci rimane indifferente, significa solo che è troppo ancorata alla realtà, è troppo descrittiva e manca della magia necessaria. Mi piacciono le immagini che ti portano in un viaggio personale. Mi piacciono le immagini che trasmettono la gamma di emozioni umane e che hanno grazia, poesia, l’elemento di sorpresa e meraviglia.

E che commuovono…
Sì, che abbiano a che fare con la dolcezza. Ho una mia testardaggine nel voler ritornare negli stessi luoghi tante volte, nonostante sembri che tutto sia stato fotografato, invece ogni volta c’è una sfumatura diversa.

Le tue immagini svelano una combinazione di realismo magico e cruda realtà. Vi si legge in filigrana Robert Frank ma anche Bresson per quel modo di trattare i soggetti come pari piuttosto che metterli su un piedistallo o guardarli dall’alto in basso…
Robert Frank è il mio riferimento, non solo per il suo lavoro fotografico ma anche per il grande rispetto che ho per l’uomo che è stato, per la capacità reattiva di continuare a vivere la vita, nonostante le tragedie che gli sono successe. L’ho conosciuto personalmente e quindi ho capito veramente che l’umiltà e la disponibilità di quest’uomo lo facevano grande nella sua semplicità. Attingo anche dalla letteratura, dai pittori che amo e alla fine questo bagaglio diventa parte di chi sei. Quando stai per scattare una foto non pensi più a una frase o a una fotografia che hai visto, quell’immagine scaturisce dal tuo occhio interno.

Tuttavia non è il primo scatto quello buono…
Bisogna scattarne novantanovemila e poi alla fine molti sono da buttare. Insegno ai miei ragazzi che occorre concentrarsi e sentire che il momento sta per venire.

Tutto in analogico, quasi a voler riaffermare il ruolo del fotografo e del suo processo creativo che termina in camera oscura…
Continuo a scattare in analogico, continuo a sviluppare i rullini e a fare da solo le stampe. La fotografia richiede una certa disciplina per portare alla luce l’immagine. Mi sento una sorta di anomalia.

Anche l’editing è un processo corale, in cui studenti e amici sono coinvolti nella difficile scelta delle immagini. Come armonizzi i contenuti di uno scatto con le necessità narrative di un libro?
Il mio editing non dura meno di due anni e le immagini da editare sono scelte sempre in maniera corale. Non le scelgo da solo o con l’aiuto di due o tre amici, le scelgo con il contributo di settanta studenti. Ritengo, con molta umiltà, che ognuno di noi ha una propria opinione e la voglio ascoltare. Non è facile mettere o togliere una foto. Cerco inizialmente di trovare la prima e l’ultima foto con cui voglio che inizi o finisca il libro. Se sono in Messico e ho una lavagna magnetica metto in sequenza le foto le guardo fino a quando, dopo aver ascoltato i pareri di numerosi studenti, cerchiamo di affinare – come in una partitura musicale – le ultime note e gli ultimi accostamenti.

I quattro libri su Cuba sono nati così: nella prefazione Vicki Goldberg li definisce una “storia d’amore”. La mostra, che sarà ospitata alla galleria Isolo17 a Verona dal 1 settembre 2021, è l’occasione anche per costruire lo sguardo della giusta distanza dall’esperienza forte della tua vita…
Questi quattro libri rappresentano la mia visione di Cuba, come ho sentito i cubani, e come io mi sono sentito a Cuba in tutti gli anni di vita trascorsi lì, vivendo con la mia famiglia. La vita dei contadini, delle persone che ho conosciuto e visto, si è intrecciata alla mia vita privata. Amori, affetti personali sono diventati un tutt’uno con Cuba. Ne Gli Americani Robert Frank ci fa vedere una sola volta la sua famiglia dentro l’automobile con cui andarono in giro, io volevo che questa presenza fosse più marcata e ho inserito almeno una decina di fotografie della mia vita privata.

Sono quattro progetti su Cuba molto diversi tra loro. Tutti comunque evitano lo stereotipo nel presentarci presenze in attesa, vite succhiate via e come l’altra faccia della gioia sia la disperazione…
Ci sono fotografi paracadutisti che toccano terra, scattano e vanno via. Io invece cerco di stare dentro e ritornare. Ritornare a Cuba dopo essere stato definito un “ospite non gradito” è stata una gioia immensa e quelle emozioni sono tutte negli scatti che ho realizzato.

Quando una situazione ti commuove al punto da volerla fotografare?
Il mio atteggiamento è intuitivo e di curiosità. Vedo qualcosa che intuitivamente mi fa capire che ha una sua potenzialità per poter essere fotografata.

Quando invece una fotografia è etica?
Quando non sfrutta per interessi una situazione difficile in cui ti trovi. Quella va mostrata con compassione, con grande interesse morale.

E con un atteggiamento spirituale…
La spiritualità è la parte più importante del mio lavoro; tanto il lavoro quanto i workshop con il passare del tempo diventano sempre più spirituali. Per me è importante sentirsi vicini gli uni con gli altri in maniera spirituale.

Dove ti porterà la vita prossimamente?
Mi piacerebbe ritornare in Messico dove da quasi vent’anni fotografo i giorni delle feste dei morti. Se la vita mi darà la salute vorrei trasformare i lavori svolti laggiù in canti “danteschi”, li chiamerò cantos latinos americanos e faranno vedere quello che ho sentito e vissuto.

Info:

www.bazanphotos.com

Ernesto Bazan, Adanai sulla sedia a dondolo, Bautista, CubaErnesto Bazan, Adanai sulla sedia a dondolo, Bautista, Cuba, 2002, courtesy the artist

Ernesto Bazan, Jumping, Avana, Cuba, 1995, courtesy the artist

Ernesto Bazan, Guardando fuori, Regla, Cuba, 2004, courtesy the artist

Ernesto Bazan, Santeria altar, Havana, 1995, courtesy the artist

Ernesto Bazan, Cane e avvoltoio, Viñales, Cuba, 2002, courtesy the artist

Ernesto Bazan, Ragazzo sottosopra, Trinidad, Cuba, 2005, courtesy the artist

Ernesto Bazan, Sirena Cubana, L’Avana, Cuba, 2017, courtesy the artist

Ernesto Bazan, Scarponi e fiori, Viñales, Cuba, 2004, courtesy the artist


RELATED POST

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.