Quale è stata la tua formazione?
La mia formazione umana e culturale deve molto ad alcune personalità di rilievo incontrate agli inizi degli anni Settanta: mi riferisco in particolare a Gennaro Vitiello, regista teatrale con cui ho vissuto, come attore, tre anni formidabili. Di recente ho pubblicato presso Ombre Corte Palestre di vita, un omaggio a lui e alla sua formidabile maieutica, alla sua grande sensibilità di uomo di cultura.
L’esperienza con Vitiello, che ho vissuto insieme a Silvio Merlino nella Libera Scena Ensemble e che ci ha portato in giro per l’Europa e per il nostro bel paese nel periodo del cosiddetto decentramento culturale, ha poi avuto una proficua ricaduta sul piano strettamente artistico a partire dalla formazione del gruppo degli Ambulanti. L’altra figura, e punto di riferimento importante, è stata quella dell’architetto Riccardo Dalisi. Penso al Rione Traiano, ai laboratori della cartapesta, avviati insieme ai comitati di quartiere, per coinvolgere i ragazzi del sottoproletariato. Anche questa è stata un’esperienza di grande formazione. In fondo è proprio lì che ho incontrato, forse per la prima volta, il sociale, le sue contraddizioni, i problemi e i drammi di una società soggiogata da una politica corrotta e arraffona, lontana mille miglia dalle questioni cogenti della gente.
Ci parli della Napoli degli anni ‘70?
La Napoli degli anni Settanta aveva un volto diverso da quella di oggi, dove la movida e il bed and breakfast sembrano avere il pallino in mano. Agli inizi degli anni Settanta si viveva sulla pelle tutta la tensione del Sessantotto. Il clima politico era tesissimo e sappiamo poi come è andata a finire con il terrorismo, naturalmente non solo nostrano. Le gallerie d’arte, che fungevano da punti di riferimento erano Beppe Morra e Lucio Amelio; ma si frequentava anche la sperimentazione teatrale che si svolgeva nelle cantine. C’era, insomma, un fermento culturale unico. Si discuteva animatamente su tutto e le porte aperte sulla sperimentazione linguistica erano tante.
Degli Ambulanti ti ricordi qualche punto di discussione?
La storia degli Ambulanti è lunga e certamente non si può racchiudere in poche battute. Adesso ci sono dei libri che la raccontano in maniera un pochino più dettagliata. Posso dire che il nostro gruppo, come poi anche altri, ruotava sì autonomamente, ma anche sotto il pungolo di Enrico Crispolti. Noi Ambulanti procedevamo per analisi e per istinto. Avevamo ben chiara l’importanza della poesia: vale a dire il massimo diapason che si può esprimere con i linguaggi espressivi. Inoltre, a differenza di altri gruppi che conducevano un’azione più strettamente politica, noi non volevamo sacrificare la dimensione linguistica. Le nostre erano delle azioni poetiche, come ebbe a definirle lo stesso Crispolti. Azioni poetiche strutturate rigorosamente sull’effimero. Infatti, di quegli eventi oggi rimangono solo alcune foto documentarie. Tutto questo l’ho poi anche raccontato nell’ambito del convegno organizzato da Lucilla Meloni nello scorso novembre al Macro Asilo di Roma, incentrato proprio sull’arte nel sociale degli anni Settanta.
Poi nel 1976 approdi, con il gruppo degli Ambulanti, alla Biennale di Venezia, nella sezione di Crispolti, Ambiente come sociale. Ci parli dell’operazione del pesce?
Il Pesce rosso era un oggetto di grandi dimensioni. Lavorando con vimini e filo di ferro plastificato, avevo creato una struttura leggera e resistente che dava forma ad un grande pesce, poi chiamato Pesce rosso. La pelle era costituita da un patchwork di stoffe e calzini coloratissimi lasciati a vista, senza trattamenti di colle e impasti. Le squame erano realizzate con calzini singoli estroflessi. Con questa immagine mi volevo collegare alla potenza della cultura popolare, nelle sue manifestazioni festose e rituali. Nell’ultimo libro di Luca Palermo Arte in movimento edito da Postmediabooks 2018, ho così descritto l’operazione: “Con il Pesce rosso volevo scuotere la mente degli altri, creare un lampo poetico, uno squarcio nell’acquiescenza della percezione quotidiana. Con questa scultura ambulante, che poi portai, per l’appunto, alla Biennale di Venezia del 1976, passeggiai a lungo sulla spiaggia corrosa dagli acidi di Bagnoli, entrai finanche nell’acqua. La gente si fermava, chiedeva, si dialogava a lungo. La strada si trasformava di giorno in giorno, sempre di più, in un laboratorio. Insomma, per noi, la vita, il rapporto con la città e con gli altri doveva essere potenziato dall’arte, sollecitando la dimensione mito-poietica della comunità. L’arte svolge una funzione primaria, sempre, poiché crea una realtà spirituale insostituibile, tanto più forte quanto più partecipata. Anche nell’operazione di via dei Mille (Natalevento, 1975) operammo in questo modo, rompendo con le nostre apparizioni gli automatismi che ci legano al gran teatro della vita quotidiana”.
Le ri-letture che si stanno facendo sugli anni Settanta, ti sembrano esaustive?
Devo dire che oggi l’attenzione agli anni Settanta è notevole. Ci sono fior fiori di ricercatori che stanno scrivendo cose molto importanti su quegli anni. Penso ad Alessandra Pioselli, per esempio. Lei ha scritto L’arte nello spazio urbano, edito da Johan e Levi nel 2015; un libro molto importante perché improntato a un’onestà intellettuale notevole, passando in rassegna tutti i gruppi che hanno operato nel sociale fino a giungere ai nostri giorni. Penso anche a Luca Palermo, giovane docente dell’università di Napoli, che di recente ha pubblicato per Postmediabooks Arte in movimento. Gli anni Settanta in Campania.
Non credi che si dovrebbe avere il coraggio di saldare quelle esperienze, sebbene brevi da un punto di vista temporale, ma coraggiose da un punto di vista sostanziale, con ricerche altrettanto radicali come quelle dell’arte relazionale o partecipativa?
Certamente! Bisognerebbe però avere anche il coraggio di dire che l’arte relazionale di Nicolas Bourriaud è in debito con quella degli anni Settanta, riconoscere le matrici e l’enorme importanza storica di quella fase, anticipatrice ancorché rivoluzionaria, e non far credere con una formula rinnovata nominalmente che le cose siano iniziate negli anni Novanta. L’onestà intellettuale fa difetto a molti critici stranieri. Crispolti è stato lungimirante. Può piacere o meno, ma le cose sono andate in questo modo. Il gran baillamme della Transavanguardia ha poi distolto l’attenzione su quelle ricerche basate sull’effimero e sul dono, riproponendo l’oggetto quadro come nuovo piatto da infilare nelle fauci di un mercato proveniente da lunghi anni di digiuno concettuale.
Ernesto Jannini, Pesce rosso, intervento sulla spiaggia di Bagnoli (Napoli), 1976
Ernesto Jannini, Pesce rosso, intervento a Terzigno (Napoli), 1977
Ernesto Jannini, Installazione in P.zza dei Consoli. Biennale di Gubbio 1979
Ernesto Jannini, Grande Decartesiana, opera esposta alla Biennale di Venezia del 1990. L’opera è ora in collezione allo SPACE di Lugugnana di Portogruaro
Ernesto Jannini, Equilibridi, 2009, installazione a Castel dell’Ovo, ph G.Carozza
È direttore editoriale di Juliet art magazine.
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