Identità virtuali: produzioni web internazionali
Le subculture della Rete creano i propri vocabolari ricombinando incessantemente elementi grafici, iconografici e audiovisivi desunti dall’ambiente virtuale in cui esse esistono. Non offrono semplicemente una critica moralistica e antagonista, bensì parodie, simulazioni, accogliendo con entusiastica enfasi barocca ogni forma di plagio, sincretismo iconografico o di brand, mescolati con spirito accelerazionista, come forma di accettazione di un dato di fatto incontrovertibile: la vittoria dell’estasi consumistica e capitalista. I cittadini della Rete si fanno beffe dei comportamenti acritici e assoggettati senza, per contro, opporre alcuna resistenza al simbolo capitalista per eccellenza poiché disinteressati a ogni forma di antagonismo, visto piuttosto come un vecchio e inefficace rudere politico del XX secolo.
Su questo piano, la figura artistica di Signe Pierce[1], che si auto definisce Hyperreality Girl, benché di recente rilevanza, è emblematica. La sua produzione si basa su un concetto molto semplice quanto veritiero, ossia, il merging reale/virtuale, l’evoluzione dei nuovi media e dei loro dispositivi che generano un ampliamento della percezione che ora include e mescola realtà fenomenica e virtuale in un’unica dimensione coscienziale. Il suo lavoro si svolge, come per la quasi totalità degli artisti Post Internet, simultaneamente nello spazio reale e in Rete con azioni performative in cui riecheggiano e si sovrappongono le opere realizzate su Instagram, Tumblr, Youtube, ovvero, su quelle piattaforme social predisposte per il self broadcasting.
Di questa pratica comunicativa resta indiscussa regina creativa Amalia Ulman[2] che ha simulato un’identità virtuale spacciandosi per influencer e riempiendo il proprio account Instagram di affascinanti foto che la ritraggono in quella veste fittizia. Per contro, se d’identità si tratta, Ann Hirsch[3], attivista femminista, ha simulato su Youtube un’identità adolescenziale che ironicamente scimmiottava i comportamenti ingenuamente provocanti di una ipotetica giovane youtuber che danzava per il diletto di ben novantamila follower, ai quali rivelò, dopo tre mesi, di essere un’artista performer il cui scopo era analizzare i comportamenti maschili in rete. Pericolosamente sullo stesso piano si pone il lavoro di Samira Elagoz[4], performer, video artista e documentarista, che ha pagato a caro prezzo la sua indagine sull’uso dei social per incontri casuali come Craiglist, subendo un paio di stupri documentati – ecco che l’incontro di reale e virtuale mostra un aspetto sinistro e rischioso. Dalla sua esperienza ha prodotto un documentario Craiglist Allstars proiettato in diversi festival e vincitore di un premio al Chicago Underground Festival nel 2018, che illustra la sua vicenda relazionale con individui contattati su Internet.
Artisti come Jon Rafman[5] e Ryan Trecartin[6], nelle loro opere ispirate alle culture espresse in rete, imitano o propongono quali ready made elementi estetici, oggetti e comportamenti “rubati” ad altri artisti o users creativi web based. Ispirato dalle aesthetics, o dai comportamenti malati di Otaku e Hikikomori, il lavoro di Rafman verte su video installazioni che riportano stralci di antropologia del Web, suggestioni dall’immaginario surreale, plagi, problematiche relative alla conservazione della memoria su supporti digitali – e qui è bene ricordare come Internet sia un immenso archivio dati disordinato e fatiscente – inscenati da video tra il narrativo e il simbolico che simulano storie simili a quelle dei videogiochi. Trecartin, spinge ancora di più sull’acceleratore parodistico. Le sue video installazioni sono parossistiche e ridanciane mise-en-scene dei comportamenti adolescenziali di una generazione totalmente inebetita dalle merci e dal consumo. Persino i dialoghi sono deliranti parodie della comunicazione e imitano le assurdità che spesso leggiamo nelle chat dei social network.
Info:
Introduzione al libro di prossima pubblicazione L’arte Contemporanea e i nuovi media. Teoria, storia, critica di Piero Deggiovanni
[1] www.signepierce.com; www.instagram.com/signepierce; signepierce.tumblr.com; https://www.youtube.com/watch?v=Wmd2SL5o2sA
[2] www.amaliaulman.eu; www.instagram.com/amaliaulman/
[3]www.therealannhirsch.com; www.anthology.rhizome.org/scandalishious; www.instagram.com/nnhirsch; https://www.youtube.com/user/scandalishious
Signe Pierce, Hiperreality Girl, screenshot da YouTube, 2018
Amalia Ulman, Excellences and Perfection © Courtesy Arcadia Missa, London, 2016
Ann Hirsch, Semiotics of the camwhore. Still da video, parte del progetto Horny Lil Feminist, 2015
Jon Rafman, Mainsqueeze, Still da video, 2014
Piero Deggiovanni (Lugo, 1957) è docente di Storia dell’arte contemporanea e di Storia e teoria dei nuovi media all’Accademia di Belle Arti di Bologna e al LABA di Rimini. È critico e ricercatore nell’ambito dell’arte contemporanea, membro del comitato scientifico del Videoart Yearbook dell’Università di Bologna. Da diversi anni si dedica esclusivamente alla ricerca, concentrandosi sulla videoarte e il cinema sperimentale.
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