Le etichette non piacciono mai. E giustamente. Rischiano di restare come un marchio, di funzionare come un segno indelebile. Pur tuttavia, si usano perché simboleggiano un tratto, indicano un riferimento che serve per orientare nella sensibilità e quindi nell’apprezzamento di ciò di cui si parla. Tutte queste premesse cautelative ci paiono d’obbligo di fronte al lavoro di Ettore Albert, per il quale, nonostante l’ampiezza delle suggestioni che evoca, ci azzardiamo a parlare di uno stile “post-pop”.
“Pop” perché sulla scia di quella grande stagione pittorica che risale agli anni Sessanta e Settanta (che richiama subito alla mente tra tanti nomi artisti come Hamilton, Rauschenberg, Warhol, Lichtenstein, Oldenburg, e in Italia per esempio Mario Schifano e Tano Festa), ma “post” proprio perché questo solco è costantemente attraversato, anche con divagazioni quasi autoironiche. Basti pensare all’immagine stereotipata del gattino che nel collage intitolato Cat, son and mother fa da contrappunto, quasi come uno sberleffo, alla coppia iconica della madre e figlio di chiara e austera derivazione religiosa. Una divertita giocosità sembra in realtà una caratteristica ricorrente dell’artista tedesco, che ama accostare o sovrapporre più livelli nei suoi dipinti, creando un effetto di straniamento e sorpresa nello sguardo dello spettatore. L’ironia non è però l’unico registro che usa, come dimostra ad esempio la sua attenzione più commovente e monotematica quando si dedica ai ritratti.
Per approfondire le ragioni della sua poetica, abbiamo avuto il piacere di rivolgergli alcune domande.
Camilla Pappagallo: Nonostante tutti i limiti delle etichette, cosa ne pensi della definizione “post-pop” riferita al tuo modo di dipingere?
Ettore Albert: Sembra sicuramente interessante. “Post-Pop” descrive abbastanza bene da dove vengo – anche se ognuno di noi proviene da qualcosa che lasciamo alle spalle per rinnovare, superare o sviluppare ulteriormente. “Post” descrive per me uno stato in cui tutto è aperto, un momento di caduta libera – in cui si è già morti ma non ancora rinati. Forse “post-post” sarebbe più appropriato o anche meglio “post-lost” (suona bene, vero?!). Vengo da una generazione che non crede più a niente – e coloro che invece hanno delle convinzioni radicate non sono mai abbastanza tolleranti e curiosi da riconoscere i frammenti di verità e veridicità che albergano in tutto e in tutti.
I tuoi lavori sembrano nascere da una continua rielaborazione di immagini tratte da ambiti diversi. Che rapporto c’è tra finzione, realtà e cliché culturali nel tuo modo di intendere l’arte?
Penso che sia un fenomeno che tutti noi possiamo percepire: i confini stanno diventando sempre più sfocati. Non c’è più un lato chiaro, niente su e giù, niente giusto e sbagliato, niente bello e niente brutto. E così fanno i confini tra realtà e finzione, le demarcazioni tra vari luoghi comuni e categorie culturali. E alla fine, ogni idea, ogni pensiero, io e te, siamo fatti di centinaia, forse anche migliaia di sovrapposizioni – oggi più che ma. Ciò che conta sei solo tu: inventi il gioco, sviluppi le regole e poi giochi .
Quando e dove hai iniziato la tua carriera?
Dipingo da quando ho memoria, già da piccolo dipingevo e decoravo di tutto, da adolescente andavo spesso in viaggio come graffitaro, poi a un certo punto mi sono limitato alle tele, a 23 anni ho fatto la mia prima mostra, due anni dopo il mio primo contratto con una galleria.
Avresti qualche nome da rivendicare come maestro o ispiratore?
L’ispirazione viene da ogni parte: cambia spesso. Ovviamente artisti come Rauschenberg, Schifano o Bosch ispirano più di altri. Ma, alla fine, tutto e tutti possono servire da maestri o fonti di ispirazione, in ogni cosa c’è una percentuale di veridicità. Attualmente i miei figli sono una fonte inestimabile di ispirazione, ma anche le tue domande ispirano.
Puoi dirci qualcosa sui momenti più interessanti del tuo lavoro passato e presente?
Ce ne sono molti: la mia arte e il mio lavoro sono la mia vita e la vita di chiunque è piena di momenti interessanti, a volte di più e a volte di meno. La mia immaginazione, la mia percezione e la mia pittura sono una sorta di via di fuga per me, sono il mio luogo felice. La realtà è spesso troppo incolore, troppo noiosa e troppo prevedibile per me, quindi la mia mente gioca con realtà alternative, aggiunge, minimizza, inserisce abbellimenti e colpi di scena. Questo è il mondo in cui gioco, questo è il mio mondo. La mia arte vuole essere una finestra e un invito a entrare in questo mio mondo.
Qualche progetto per il futuro?
Al momento sto lavorando molto con i simboli, sto riflettendo sulla loro influenza su di noi e sul loro potere. I simboli servono per pensare, per “spiegare il mondo”, per percepire e valutare i nostri simili e così via. Al centro delle mie riflessioni c’è sempre l’essere umano, inteso come un misterioso agglomerato di infiniti livelli. Ciò che Dostoevskij, ad esempio, descrive, analizza e ritrae a parole, io cerco di indagarlo con un linguaggio pittorico, attraverso la forma e il colore oppure attraverso segni e simboli. C’è ancora così tanto da imparare, da scoprire, così tanto da fare, così tanto da creare.
Info:
Ettore Albert, Four gates, 100 x 150 cm, acrylic on canvas, courtesy the artist
Ettore Albert, Cat, son and mother, collage, 82.5 x 116 cm, oil and acrylic on paper and wood, courtesy the artist
Ettore Albert, Dog eat dog, 80 x 100 cm, oil and acrylic on canvas, courtesy the artist
Ettore Albert, Ying & Yang, 150 x 150 cm, oil and acrylic on canvas, courtesy the artist
Ettore Albert, Above & Below, 100 x 120 cm, oil on canvas, courtesy the artist
Laureata in arte contemporanea, collabora con varie gallerie d’arte contemporanea, fondazioni private, centri d’arte in Italia e all’estero.
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