Angelo Spatola. Doppio Passo

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Data / Ora
Date(s) - 27/09/2024 - 31/10/2024
6:00 pm - 8:00 pm

Luogo
Spazio E_EMME

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Venerdì 27 settembre alle ore 18.00 inaugura Doppio Passo di Angelo Spatola, presso Spazio E_Emme in via Mameli 187 a Cagliari, inserita nel circuito AMACI XXI giornata del contemporaneo.

La mostra, curata da Anna Oggiano, presenta 10 opere di recente realizzazione nel solco della ricerca dell’autore: segni, colori, immagini e i loro doppi, riflessi algidi e introspettivi.

Le opere sono realizzate con tecnica mista: acrilici, smalti, plexiglas, pellicola iridescente.

Angelo Spatola vanta al suo attivo diverse mostre e partecipazioni in progetti nazionali; è inoltre membro del collettivo torinese IDEM Studio, gruppo artistico nato nel 2015 dalla collaborazione con Ruggero Baragliu e Samuele Pigliapochi.

Per chi avrà piacere, l’artista sarà presente il giorno dell’inaugurazione in galleria.

Testo critico di Fabio Pasquet.

“Elogio dell’inganno rivelatore”

Mario Schifano, genio libero della pop art, sosteneva che la pittura fosse umana, troppo umana.

Vi ha girato attorno anche un capolavoro cinematografico.

Angelo Spatola, che quei capolavori conosce, l’umanità scevra da sovrastrutture, quella che scava nella carne alla ricerca di sé, che domanda attraverso lo sguardo più che col verbo, effonde.

In fondo a quel mondo appartiene, non tanto per richiudere la sua arte in un cassetto critico definito, ma poiché aderisce di diritto a quella rara schiera di artisti la cui persona non delude fronte all’opera, la cui nitidezza del vivere, fino allo spasmo della notte madida di luce e vizio, è un tutt’uno con l’arte a sondare.

Spatola ha in sé la poesia di Piero Ciampi, la periferica silenziosa ricerca di Tano Festa, i versi misurati di Umberto Fiori.

Il tutto armonizzato dai sassofoni di Massimo Urbani e Larry Nocella.

Direte “per lo più vite bruciate in breve tempo”… Ma quanto il tempo stesso continua a onorarle.

Anche Angelo ha lo sguardo rivolto lontano, là dove dovrebbe mirare ogni artista degno di questo nome.

L’ho visto lavorare inizialmente su rombi, doppiezza di triangoli e quale simbolo più alchemico, arcaico, nodale per l’uomo, fuoco e acqua, stasi e cambiamento, l’occhio di Dio a cui mirare, quello sguardo che forse non s’incontrerà mai e proprio per questo scosta nel tempo la continua tensione dell’indagine, che Angelo ha esaudito in ogni rifinitura, colorando la ripetitività dell’odierno e le sue triangolazioni, per l’appunto, in una modulazione di incastri e dimensioni di conturbante lungimiranza.

Ora il suo spazio rimanda ancora e come in Talete tutto comprende nelle nuove opere, niente è omesso nelle profondità, nel rifrangere, porre il visitatore al di là dell’opera stessa, protagonista egli stesso il narciso, intimorito l’agorafobico, ammaliati l’esteta epicureo quanto il socratico anacoreta.

Nulla ho mai trovato nell’arte astratta che si avvicini all’opera di Jorge Luis Borges quanto le opere di Angelo e, comprenderete, non è cosa da poco, lo scrivente nell’atto quasi se ne domanda la possibilità di una sorta di boutade.

E invece no.

“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia”…

Putacaso queste sue opere, di rimandi e congiunzioni infinite vivono.

Come di provocanti attrazioni quando su un filo sottile, funambolo della ricerca e dello stile, il nostro lambisce volutamente cromatismi kitsch per attrarre lo sguardo assuefatto sempre più di banalità in quest’era decadente entro opere che invece a tutto appartengono fuorché a ciò; ogni frammento d’esse è semmai proiezione, inganno, perdizione.

E cosa chiedere di più ad un’opera, se non smarrirvisi.

Perché è l’attrazione, la prossimità ai limiti del contatto fisico a colpire, l’apparente semplicità a nascondere molteplici sguardi, rappresentazioni, previsioni.

Niente di più affascinante vi è di un’opera complessa mascherata da fittizia elementarità.

Forse lì sta il senso di una realizzazione artistica, qualsiasi essa sia.

Al fruitore dimostrarsi all’altezza.

Faticare lo spettatore sull’opera come, se la memoria non m’inganna, Leopardi voleva si sudasse sui suoi versi al pari dell’autore.

E se non fosse quantomeno mettersi in gioco nel ludibrio più sensato che possa convogliarsi in noi.

Come nella poesia del suo semi-omonimo Adriano Spatola, siderale poeta fonetico che sugli apparentemente concisi dualismi seduction-séducteur o avation-aviateur di giocosa francofonia costruiva mondi sensuali e violenti, voli, guerre, vita, ed ancora proiezioni, rimandi, stralci, teofanie dissolutorie.

Anche con lui ci saremmo intrattenuti indubbiamente, io ed Angelo, a parlare di nubi e bere un bicchiere di rosso routine come nella “Scirocco” che la penna gucciniana gli ha magistralmente dedicato.

E come lo scirocco l’opera di Angelo pare provenire da luoghi arcani, e ancora sfiora la perfezione delle triangolazioni decuplicate, depositate nel sapere del mondo come sabbia nei deserti che sono fraterni a queste sue nuove opere dal silenzio amplificato, la ricerca di sé in altre dimensioni mascherate sotto una patina d’allodola, quella pace nell’investigazione più profonda che non ci sappiamo concedere, e ancora noi riflessi, non si tema di peccar di superbia, trascinati di vento a parlare di ciò che amiamo,

e amiamo l’arte, le parole, quegli specchi che mandano e rifrangono e poi riassorbono i pensieri come nelle opere dell’Angelo/Borges che avete di fronte a voi, e benedite quelle complicazioni che a guardarle da un’altra angolazione paiono semplificarsi prima che uno scarto degno d’un Garrincha nello spazio di pochi centimetri riviva di zoppicante inganno,
e perduti quindi ancora noi, un altro bicchiere a brindare all’opera che non si svela ma ricerca,

e c’è un sassofono in sottofondo anch’esso a sondare abissi armonici o un tintinnabulo a ricordare che è il momento di riappacificarci perché no, gambe e avambracci accostati a una tovaglia d’osteria perché anche lì nasce l’arte dell’opera e dell’incontro,

o lo scrutar d’intorno viceversa in una città così grande d’aria e respiro nolente affannoso che è poi soltanto una galleria d’arte ciò che scorgiamo alle nostre spalle riflessa nel grande mare delle cose, che qui si stagliano nell’esser esse stesse mezzo, guida, rivelazione.

E così sia.

Sino alla fine dei giorni.

All’ingannevole, apparente appagamento dell’infinita arte.

A quando lo sguardo di Dio non incontri i nostri nel rifrangersi dell’opera, che è poi la vita, che è poi lo sguardo d’uno scarto ancora, a rimandare.


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