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Date(s) - 16/05/2024 - 30/06/2024
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cantine Surrau
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Mostra “Dialoghi II – Gabriella Locci versus Salvatore Ligios
L’esposizione, organizzata in forma di dittici, presenta 10 opere originali di Gabriella Locci realizzate con differenti tecniche incisorie, selezionate all’interno del tema “La forma del tempo”, e 10 fotografie, soprascritte con inchiostro metallico, di Salvatore Ligios, unite sotto il titolo “Diario grafico. Segni, tracce, vuoti”.
Le incisioni di Gabriella Locci partono dalla matrice “capace di trasformarsi nel tempo, un tempo infinito e tuttavia destinato a generare nuovi e infiniti racconti”. Le dieci fotografie di Ligios ripercorrono idealmente per immagini l’arco storico dal 1400 sino ai giorni nostri, con rimandi e omaggi alla tradizione delle arti visive in Sardegna. I “Dialoghi” sono documentati con un catalogo edito da alla Soter editrice.
PUNCTUS CONTRA PUNCTUM testo in catalogo a cura di Ivo Serafino Fenu
“Nell’ambito della musica colta con il termine contrappunto si intende una tecnica compositiva, diffusa fin dall’epoca medioevale e giunta a maturazione in età barocca, che si caratterizza per la sovrapposizione “nota contro nota” (in latino punctus contra punctum) di una linea melodica secondaria, detta discanto, alla melodia principale detta canto dato o tenor. Uno sviluppo della musica prevalentemente orizzontale, dunque melodico, per due linee che si confrontano ma che non escludono momenti armonici in senso verticale e che, dunque, si compenetrano e si influenzano a vicenda.
Le stesse dinamiche contrappuntistiche paiono in- nervare le conversazioni tra Gabriella Locci e Salvatore Ligios, la prima attraverso dieci incisioni e il secondo con altrettante fotografie. Utilizzando ancora un linguaggio prettamente musicale possiamo parlare di due linee melodiche, nella fattispecie di pari dignità, che si incontrano, si confrontano o si contrappongono su un tema comune: la pregnanza visuale di un B/N modulato e armonizzato nelle infinite gradazioni dei grigi.
Tuttavia l’intreccio delle due melodie visive non avviene solo a livello tecnico/formale ma si annoda, ulteriormente, sul piano contenutistico e simbolico. Si tratta, infatti, di due storie umane e artistiche che di dipanano in un racconto sublimato per immagini, interiorizzato e sofferto quello di Gabriella Locci, quasi un romanzo di formazione quello di Salvatore Ligios. A legarle il fattore temporale che, per entrambi, è un tempo che cuce e ricuce, dà forma, lascia segni, tracce e vuoti, molto spesso ferite e cicatrici in cerca di suture.
Trattandosi di conversazioni è scontato il raffronto tra arti figurative e fotografia che, del resto, ha origini lontane e che vede quest’ultima in un primo tempo succube ma, successivamente, determinante nello svecchiare la pittura dai canoni accademici ottocenteschi. È agli inizi del XX secolo, con i vari movimenti avanguardistici, che le due realtà cominciano a confrontarsi e a ibridarsi seppure, va detto, tali processi siano sempre stati peculiari più degli artisti visivi che dei fotografi, i quali hanno mantenuto e continuano a mantenere una diffidenza piuttosto ostentata e un certo fastidio nell’essere definiti “artisti”.
Ciò premesso è palese che, pur in ambiti diversi e con i tempi lenti della prassi incisoria e l’immediatezza dello scatto fotografico, pur se preceduto da momenti più o meno lunghi di preparazione, vi è stata da parte dei due la volontà di instaurare una “corrispondenza” non di amorosi sensi quanto di sguardi furtivi e ammiccamenti reciproci verso la ricerca di ciascuno, sia sul piano estetico sia su quello contenutistico.
La disposizione alterna delle opere in catalogo è la conferma di questa sorta di dialogo segreto o, sempre per restare in metafora, di controcanto. Le prime proposte, La forma del tempo I di Gabriella Locci e Il giardino di Pastorello di Salvatore LIgios, hanno entrambe una sorta di dimensione aurorale: l’incisione parte dalla sua fase primaria, dalla matrice, capace di trasformarsi nel tempo, un tempo finito e tuttavia destinato a generare nuovi e infiniti racconti mai identici e modulati in sottili e, spesso, imprevedibili variazioni; anche la fotografia racconta di una iniziazione al mondo della visione tramite acquerelli e disegni a china e di una passione, da parte del futuro fotografo, per uno dei massimi maestri della pratica incisoria, Albrecht Dürer, poi ritrovato ed evocato in un’immagine fotografica all’interno del giardino di un altro artista, quasi un’apparizione o, forse, la consapevolezza di aver acquisito nel proprio DNA quei potenti segni iconici, assoluti e fondanti.
Tempi d’infino e di ombre, ombre perturbanti che sono presenti in tutte le altre incisioni proposte da Gabriella Locci. È la stessa artista, nella tavola La forma del tempo V, a ricordarci: «Il tempo è il nostro passato, la nostra storia e il nostro futuro, che induce momenti di meditazione che oscillano tra la visionarietà e il sogno». Sono temi a lei cari, ricorrenti, di forte impatto visivo e di lancinante carica drammatica. Un universo visivo, il suo, facilmente inquadrabile nell’ambito dell’arte informale e riconducibile a un astrattismo lirico/espressionistico volto a indagare le più intime possibilità della materia, del colore, del segno e del gesto. Una gestualità violenta di matrice pittorica, memore della lezione di molti artisti del Novecento quali Franz Kline, Hans Hartung o il giapponese Jiro ̄ Yoshihara, ponte tra oriente e occidente e portavoce della tradizione spirituale del Buddhismo Zen. Una gestualità apparentemente in contrasto con i tempi della pratica incisoria ma resa possibile da una rigorosissima capacità tecnica e da un’altrettanta inesausta volontà di sperimentare le infinite e insondate possibilità espressive di tali tecniche. Tutto è funzionale a consentire quel flusso di coscienza che sembra tracimare nella dimensione del conscio rimanendo però sfuggente e limaccioso e collocandosi in quella zona d’ombra in perenne mutazione che separa razionalità e irrazionalità.
Un’arte sfuggente nella quale l’“indeterminatezza” è un valore aggiunto che stravolge i codici logici e razionali, esaltando, piuttosto l’automatismo e la discontinuità, l’interferenza e, appunto, il perturbante. Una ricerca inesausta di equilibri precari e di incerte armonie, che palesano l’enorme fatica dell’essere umano, e dell’artista in particolare, a controllare e governare una realtà fatta della stessa sostanza dei sogni (W. Shakespeare), consapevole che l’arte non possa essere codificata «perché perderebbe quella sua parte sciamanica che fa dell’arte uno sguardo profondo capace di penetrare il mistero delle cose» (La forma del tempo X).
Al tema dell’ombra, costruttiva di forme e spazi della mente, sembrano guardare anche molti scatti di Salvatore Ligios che continua a relazionarsi con l’opera della Locci in una sorta di persistente omaggio al mondo dell’incisione e ad artisti che hanno segnato il suo percorso di crescita. Non solo l’amato Dürer, ma le acqueforti di Rembrandt in relazione alla fotografia di paesaggio e dal quale assorbe quella capacità di saturazione dell’immagine giocata tra masse d’ombra e squarci luminosi, quasi a stabilire una continuità tra passato e presente, tra la pregnanza cromatica e chiaroscurale dell’artista olandese e lo sguardo affatto contemporaneo del fotografo. Perché, pare dirci Ligios, ci sono modelli visivi imprescindibili, seppur provenienti da esperienze lontane e distanti dalle prassi di stampa contemporanea. Così le inquietanti e sublimi visioni di Giovan Battista Piranesi e delle sue carceri ritornano nelle immagini di aree industriali abban- donate dell’Isola, molto meno sublimi ma altrettanto inquietanti, testimoni mute dei sogni infranti della Rinascita sarda ben presto trasformatisi in incubi.
Il fotografo non dimentica di omaggiare quella prestigiosa “scuola sarda” di incisione che andò formandosi nell’Isola nella prima parte del secolo scorso, a partire da Mario Delitala, Carmelo Floris, Remo Branca e Stanis Dessy, solo per citarne alcuni. Particolarmente esplicite in tal senso due fotografie, Pariglianti e Sulle bianche onde di Asiago. La prima, fortemente dinamica e caratterizzata da un B/N contrastato tanto da eliminare completamente la scala dei grigi, evoca, attraverso un mo- mento ludico e di forte partecipazione popolare, la celebre xilografia di Mario Delitala La mascherata dell’Apocalisse(1948); memore, a sua volta, della celebre xilografia düreriana I quattro cavalieri dell’Apocalisse mentre la seconda rimanda, in maniera più allusiva e decisamente critica, alla fortunata incisione del maestro sassarese Stanis Dessy La Brigata Sassari a Casera Zebio (Forza Paris!) (1934), confutando certa retorica bellicista e la vacua quanto ipocrita memorialistica post mortem, restituendo così alla fotografia quel ruolo di denuncia e di sguardo critico verso la contemporaneità.
E così, punctus contra punctum, la conversazione tra Gabriella Locci e Salvatore Ligios continua, in un confronto solo in apparenza impossibile e, invece, ricco di tangenze attraverso quel B/N capace di sondare profondità inesplorate e sofferte voragini dell’anima quanto la quotidianità che ci circonda nella complessità del reale.
In questo sottile gioco contaminativo nelle incisioni compaiono grumi di figurazioni che alludono a parti anatomiche lacerate o eroticamente connotate, ad antri e rifugi uterini, talvolta lettere alfabetiche evocanti storie e memorie individuali e di un’Isola, anch’essa terra d’ombre e di mistero. Le fotografie, viceversa, insolitamente percorse da vibranti e baluginanti testi scritti, a potenziarne la valenza di diario intimo e programmatico al contempo, sono luoghi di storie e di incontri fatali e di altrettante fatali passioni: per i cavalli, per le tradizioni e per le con- traddizioni di una Sardegna amata e raccontata con un disincanto intriso di malinconica poesia, oltre gli stereotipi, oltre le banalizzazioni folkloriche e, talvolta, con sottile e amara ironia.
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