Data / Ora
Date(s) - 14/05/2023
12:00 am
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ORGANICA Museo di arte ambientale nel Parco del Limbara
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Giorgio Urgeghe mette a nudo la superficiale e inconsistente coperta sotto cui si nascondono i gravi problemi di un mondo in affanno. Una mostra immersiva giocata sulla provocazione e sulla sollecitazione visiva, dove tutto è provocatoriamente verde.
ORGANICA Museo di arte ambientale nel Parco del Limbara Spazio CEDAP | Tempio Pausania (SS) 14.05.2023 | 15.06.2023
Giorgio Urgeghe – Purché sia verde? a cura di Mariolina Cosseddu
Il titolo della mostra, di fatto, non richiede punto di domanda: eppure quel segno grafico dà senso agli interrogativi che da tempo si pone Giorgio Urgeghe. È indubbia verità che il verde sia il lasciapassare che, ultimamente, apre qualsiasi porta e ci proietta in mondi ideali e consolatori. Un mondo di cose buone, giuste, legittime, che salvano il mondo e placano la cattiva coscienza. Viviamo il tempo del green, del verde abbagliante che invita al benessere, a riconquistare il paradiso perduto, a capovolgere la realtà mortificante. Il verde rappresenta dunque un’inversione di marcia rispetto al passato, una presa di consapevolezza che salva capra e cavoli, una missione di massa: Linea verde, Il secolo verde, Racconti verdi, giusto per citare alcuni tra i titoli di successo in TV e in libreria. Una piccola parola che si trascina dietro una montagna di campi d’attualità: clima, ambiente, natura, ecologia, salute e un’infinità di altre cose. Ma sarà davvero così? si chiede sgomento Giorgio Urgeghe. Basta mettersi dalla parte del verde (ma in che modo poi?) per lasciarsi alle spalle la natura martoriata, i disastri ambientali, i cambiamenti climatici? Che si stia costruendo, anzi già in opera da tempo, un altro mito della cultura odierna pronta a rattoppare ferite purulente? Oltre cinquanta anni fa Roland Barthes pubblicava per Einaudi un saggio di successo: Miti d’oggi. Lucida, dissacrante analisi dei comportamenti, degli oggetti, dell’immaginario della società consumistica. A differenza dei miti antichi, quelli creati dalla modernità, svuotati dell’aura sacrale e di valori reali in rapporto alla Storia e alla Natura, diventano modelli di comportamento spesso ambigui e fuorvianti. Credo che Barthes non avrebbe difficoltà a inserire, nella sua casistica, questa nuova formula, che di fatto mette tutti d’accordo, permettendo così di oltrepassare differenze sociali e culturali. Un comportamento generalizzato, un colore per tutti. Come solo i miti sanno fare, facendoci dimenticare il reale storico e lasciando vagare la mente nel fantastico. La potenza dei miti, Barthes la chiama miti di parole. Per metterne a nudo il loro potenziale fragile e temporaneo, pronto a scadere. Allo stesso tempo ne riconosce la loro necessità sociale ed esistenziale in quanto l’uomo ha bisogno di appigli, di certezze e verità, seppure fangose o inutili, per arginare le paure. Il discorso ovviamente ci porterebbe troppo lontano. Fermiamoci qui. E chiediamoci, semplicemente: vivere verde, perché no? Ma la formula è davvero praticabile o è solo uno slogan buono per tutte le stagioni? Facciamo un’altra piccola digressione che ci porta ad osservare la storia dei colori come storia delle civiltà, passate e recenti. Attraversato dall’antichità e giunto senza pause fino all’era industriale, il territorio del colore è specchio, di volta in volta, del potere dominante come delle simbologie popolari, dei sistemi religiosi o delle illecite superstizioni. Inoltrarsi in questo ambito significa fare i conti con una ricchissima bibliografia che apre scenari affascinanti, sia in campo artistico che in quello quotidiano. “Il colore non è solo un colore” ci ricorda Kassia St Clair nel bel volume “Atlante sentimentale dei colori”, è, prima di tutto, “una costruzione culturale” che subisce nel tempo usi, significati e interpretazioni differenti e sempre variabili. Ce lo racconta Manlio Brusatin nel saggio “Storia dei colori” dove, chiamando in causa l’altro grande esperto Rudolf Steiner, sottolinea l’azione “simbolica e morale del colore oltre ad una funzione profetica e terapeutica teorizzata da Steiner”. Ma il massimo specialista oggi sembra essere Michel Pastoureau, che questo ambito lo ha indagato in ogni dove tanto da consacrargli le sue strepitose capacità di studioso. Scrittore prolifico ha dedicato al colore, oltre una serie di testi piacevoli e intriganti, vere e proprie monografie, tra cui non poteva mancare il verde. Associato nel tempo a “tutto ciò che è mutevole, effimero e volubile, il verde ha simboleggiato l’infanzia, l’amore, la speranza, la fortuna, il gioco, il caso, il denaro, il destino. Solo dal Romanticismo è divenuto il colore della natura e, in seguito, quello della libertà, della salute, dell’igiene… Dopo essere stato a lungo in disparte, malvisto o respinto, oggi si vede affidare l’impossibile missione di salvare il pianeta”. Giorgio Urgeghe ha intercettato questo clima euforico quanto immotivato, velleitario e utopico e ne mette a nudo la superficiale e inconsistente coperta sotto cui si nascondono i gravi problemi di un mondo in affanno. Prepara così una mostra verde, dove tutto è verde e, se non lo è, è solo per mettere maggiormente in luce il verde. Una mostra immersiva diremo, giocata sulla provocazione e sulla sollecitazione visiva, su un’estetica ansiosa e ambigua, su un immaginario vulcanico e sempre controcorrente che mal sopporta codici e regole condivise. Giorgio Urgeghe ha fatto, dell’anticonformismo autentico e sentito, una condizione di vita, e di arte. La mostra diventa allora un’incursione nel proprio vissuto, nella sua storia intima che si lega al suo personalissimo modo di guardare il reale di cui sente l’estraneità e la superficialità di comportamenti codificati. Come leggere dunque la presenza di ante scorrevoli da cui emerge parte di una tela con i coccodrilli realizzati anni addietro e resi docili da quella tinta rasserenante? Racchiusa poi, quale prezioso reperto, in una teca dentro cui si ripiega su stessa, trasformata in oggetto insidioso e indecifrabile. Metafora del proprio passato ancora incombente certo, ma anche di un presente irrisolto nelle proprie contraddizioni e incoerenze: così l’armadio che chiude e nasconde ciò che non si può rivelare ma ne lascia distrattamente intravvedere lembi inquietanti. Di fatto, una traslata immagine fortemente iconica di questo tempo e di questa mostra. Di ciò che è lecito dire e delle censure in costante agguato. Una grande installazione allora, se volete, quella accolta dallo spazio ai piedi del Limbara, inserito nel verde con cui Urgeghe stabilisce una relazione dialettica tra vero e falso, tra natura e cultura, tra artificio e realtà. Ne sono un chiaro esempio le buste plastificate dentro cui fa scorrere acqua colorata come una segnaletica spiazzante, che disorienta i sensi e allerta la percezione visiva. In quell’arcobaleno liquido il verde si impone sollecitato dagli altri colori così come nelle piccole vasche in cui ristagnano, come in precari giardini primaverili, fluidi cromatici su cui si afferma, ancora, l’insistente verde. Un paesaggio disturbante, il suo, teso allo svelamento più che alla rappresentazione delle cose che, svuotate di senso logico, indicano se stesse come fari per coscienze allertate. Loro stessi oggetti pensanti. Inutilmente dunque ci chiederemo dov’è la natura verdeggiante, di fatto non c’è perché ridotta a orizzonte invisibile, lontana e incomunicante, evocata insistentemente nelle bande che corrono sulle pareti, in realtà interlocutore senza diritto di replica. Il linguaggio simbolico e concettuale di Giorgio Urgeghe propone dunque una riscrittura del reale in forme arbitrarie, secondo una grammatica personale, lirica e immaginifica come solo i sognatori sanno fare. Che mentre mettono a nudo i falsi miti e i feticci del presente ne vedono la parte più vulnerabile e, perché no, anche esteticamente tangibile. Un’estetica, la sua, essenziale fino alla riduzione estrema delle cose. Con una vena di ironia sottesa che attraversa da sempre il suo lavoro, giocato tra una singolare componente esistenziale e una dissacrante eppure sofferta visione del mondo.
Mariolina Cosseddu
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