Presepe Contemporaneo

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Data / Ora
Date(s) - 03/12/2023
9:30 am - 6:00 pm

Luogo
Reggia di Portici

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Dal 3 dicembre 2023 al 2 febbraio 2024 gli interni della Reggia di Portici, sede della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e del Centro MUSA – Musei della Reggia di Portici e i giardini dell’Orto Botanico di Portici, ospiteranno la collettiva di pittura e di scultura “Presepe Contemporaneo”, a cura di Michele Citro e di Andrea Guastella.

La mostra, che raccoglie le opere di ventiquattro artisti (Domenica Amoroso, Sandra Attivo, Alex Caminiti, Luigi Citarrella, Peppe Cuomo, Alessia Forconi, Ignazio Fresu, Angelo Giordano, Andrea Guastavino, Giovanni Longo, Fulvio Merolli, Giuseppe Negro, Giuseppe Palermo, Mary Pappalardo, Alida Pardo, Giacomo Rizzo, Rosa Mundi, Eleonora Rossi, Silvia Scaringella, Emanuele Scuotto, Max Serradifalco, Fernando Spano, Antonio Tropiano, Elia Alunni Tullini), non è la classica e banale reinterpretazione del presepe dove le icone della tradizione lasciano posto e spazio — forse sarebbe più consono dire “luogo” — ai “personaggi” dell’attualità, cercando di tracciare forzate analogie caricaturali col fine di rappresentare uno spaccato della società del presente, spesso ritratta brutalmente come nichilista ed estremamente trash. Il titolo, commerciale e seducente, adeguato per un pubblico di massa amante delle tradizioni natalizie e delle passeggiate a San Gregorio Armeno, nasconde finalità filosofiche più bonariamente subdole e, al contempo, raffinate e profonde: riflettere sui significati della venuta del Cristo, “Figlio di Dio, generato e non creato, della stessa natura del Padre”. Alle raffigurazioni di Madonne, San Giuseppe, Bambinelli, pastori e Re Magi, si sostituirà il disvelamento estetico — tramite installazioni indoor ed outdoor di importanti artisti contemporanei italiani — di concetti purissimi ed ineffabili: la frattura, il perdono, la riappacificazione, l’umiltà di Dio,  l’umanizzazione del divino,  la divinizzazione dell’umano, l’annunciazione, l’attesa, la maternità, la manifestazione, il mistero della nascita in ogni suo senso, tanto letterale quanto metaforico, la concezione spazio-temporale post Christum etc. Una mostra da capire e sentire intimamente, una visione alternativa al folklore e alla tradizione che materializza il vero senso dell’arte secondo Kant: “Dà da pensare”. In occasione della serata inaugurale, domenica 3 Dicembre alle ore 18.00 presso la Sala Cinese della Reggia si svolgerà il seminario di studi “Presepe Contemporaneo. Alla ricerca del Sacro”. Interverranno artisti, filosofi, scrittori e i curatori della mostra.

Presepe Contemporaneo

a cura di Michele Citro e di Andrea Guastella

Orari: dal martedì alla domenica dalle 9:30 alle 18:00, con ultimo ingresso alle 16:30. Lunedì chiuso.

Biglietti:

€ 8 intero

€ 6 ridotto

https://www.centromusa.it/it/news/2023/908-presepe-contemporaneo.html

Dal testo in catalogo di Andrea Guastella:

“Il presepe appare oggi mancante di potenza simbolica. Che senso ha collocare su un foglio di cartapesta alberi finti e carovane di pastori? L’arte, quando è originale, non ripete modelli di facciata. È questa la ragione per cui, a uno sguardo neutro, alieno da intenti religiosi, gli arredi del presepe appaiono dilettanteschi e amatoriali e la consuetudine, qualora non cristallizzi in reperto archeologico, si allontana tra i ricordi come una stanca, stucchevole e al limite infantile restituzione del già noto.

Presepe Contemporaneo contraddice sin dal titolo – un presepe non è mai “contemporaneo” – una tale impostazione. La mostra vuole piuttosto riflettere sui significati della venuta del Cristo, “Figlio di Dio, generato e non creato, della stessa sostanza del Padre”, nella consapevolezza che non è il presepe, con le sue curiose consuetudini, ad essere oggetto di scoperta; siamo noi che, sottratti al flusso di una vita di cui non sappiamo l’origine né comprendiamo la fine, diventiamo soggetti di esperienza nel confronto col presepe.

Alle raffigurazioni di Madonne, San Giuseppe, Bambinelli, Re Magi e pastori, si sostituirà pertanto il disvelamento estetico — o l’intenzionale occultamento — di concetti purissimi e di sensi ispirati: la frattura, la riappacificazione, il perdono, l’umiliazione del divino, la divinizzazione dell’umano, l’annunciazione, l’attesa, la maternità, il passaggio, tanto letterale quanto metaforico e traslato, lo spazio e il tempo, la verità e l’ignoto.

Il tutto attraverso le installazioni di ventiquattro artisti – Domenica Amoroso, Sandra Attivo, Alex Caminiti, Luigi Citarrella, Peppe Cuomo, Alessia Forconi, Ignazio Fresu, Angelo Giordano, Andrea Guastavino, Giovanni Longo, Fulvio Merolli, Giuseppe Negro, Giuseppe Palermo, Mary Pappalardo, Alida Pardo, Giacomo Rizzo, Rosa Mundi, Eleonora Rossi, Silvia Scaringella, Emanuele Scuotto, Max Serradifalco, Fernando Spano, Antonio Tropiano, Elia Alunni Tullini – che, rifiutando di rappresentare il solito presepe, trasformano la reggia di Portici in un luogo epifanico, dove l’assenza del presepe “classico” diventa promessa di una presenza reale.

Certo, perché ciò avvenga, è necessario attraversare il labirinto, ritrovarsi – come nell’opera di Giacomo Rizzo – negli abissi del proprio Io interiore, dove Teseo, Arianna e il Minotauro sono la stessa persona. Solo allora comprenderemo che il viaggio non esiste, esistono soltanto i viaggiatori. E che, a viaggio iniziato, Io è un altro.

In questa prospettiva surreale, visitare il presepe è rinascere come la fenice dalle proprie ceneri dopo aver preso fuoco. A tale creatura mitologica si ispira, non a caso, il trittico di Fulvio Merolli, che nelle tinte ripercorre simbolicamente le tre fasi della coniunctio alchemica: NigredoRubedo e Albedo. La sua Fenice, pur avendo le ali, non è però un uccello. L’artista la immagina come una donna esile, slanciata, leggermente inclinata in avanti, colta nell’attimo di prendere il volo. La sua nudità, più che un rimando alla cultura classica, si riferisce alla necessità, dettata dal volo, di alleggerirsi, di abbandonare il passato. Un passato che Fenice, prigioniera di un eterno divenire, non può rinnegare interamente, come attesta il suo sguardo pensoso rivolto verso il suolo. ‎

E come dimenticare il viaggio di chi ci ha preceduto? Quando, migliaia di anni fa, non esisteva una stella cometa, ma soltanto oscurità, lì dove era situato il polo nord celeste, la Costellazione del Cigno, con la sua forma a Croce, indicava la strada, la meta del cammino. Il cammino tracciato nell’installazione di Rosa Mundi, che ne replica la forma. Ma anche quello, segreto, percorso dalla vita nel grembo di ogni madre. Andrà tutto bene? Il bambino sarà sano?

Ci sono donne, come la Mater di Elia Alunni Tullini, che non generano più figli, il cui ventre rigonfio, aperto da uno squarcio, pare custodire solo il vuoto. Un lampo, per un istante, ci raggela. Abbiamo creato macchine perfette, ma non siamo capaci di intendere il mistero.

Un soccorso potrebbe forse giungerci dal lavoro manuale. Non ci è stato comandato di concimare il suolo di lacrime e sudore? A furia di scavare – lo suggerisce l’unico creativo utensile, che rimanda agli strumenti contadini, di Mary Pappalardo – qualcosa nascerà.

O magari verrà un angelo senza testa né braccia e persino senza corpo – una Nike di Samotracia – ad annunciare a una Venere al bagno altrettanto piatta un futuro di splendore: una mano si apre, lascia correre il vento tra le dita, si arrende o dichiara aiuto; l’altra, si chiude. La vita è come il battito del cuore, una continua pulsazione. È questo ritmo di presente e passato, forme aperte e forme chiuse che le sagome di Fernando Spano riattivano. Nell’unica maniera che si possa immaginare: attraverso l’illusione.

Del volume? Di un avvento impossibile, irreale?

Se in Short Story (calf) di Giovanni Longo il legno recuperato e classificato per forma ricompone il fragile scheletro di un vitello che, in un’unica posa, racconta la storia della sua breve vita, dalla nascita (il nastro azzurro che cinge gli arti inferiori) alla sua macellazione, nell’installazione di Giuseppe Negro il bue che si appresta a riscaldare il Bambinello – di cui ancora non c’è traccia – fa le veci di tutti gli animali: l’aspetto è di bue, ma la gobba carica è quella dell’asino o persino del cammello. Coi sui centrini di pizzo, con i suoi cesti di vimini dorati, questa solenne figura è la viva incarnazione di un’Attesa (di sconfitta della morte) che non riguarda solo gli uomini, ma l’intero creato.

Ne sono immagine le api di Silvia Scaringella: presso i popoli indoeuropei l’apis melliflua, produttrice del prezioso miele, ha sì rappresentato l’incarnazione dell’abbondanza e della prosperità, ma soprattutto, per la sua scomparsa nei mesi invernali e il suo ritorno in primavera, la perenne rinascita e il rinnovamento della natura. Come se non bastasse, dal cristianesimo in avanti, specie quando si presenta in gruppo, l’ape è icona della comunità credente e dei suoi valori, dall’umiltà alla laboriosità. Il Natale è anche questo: un invito a cercare tutti insieme ciò che da soli è impossibile trovare.

E a cos’altro mai si dedicano, al centro di una stanza, su un basamento dai contorni geografici della città di Nazareth, le quaranta sculture di Luigi Citarrella? Cercano, appunto, la “fede”: scritta – faith – che campeggia su una conca simile a un lavacro, a un fonte battesimale. Dio, nessuno lo ha mai visto. Ma,

per chi ha fede, l’Inferno che sperimentiamo sulla terra non è l’unico orizzonte di destino; esiste il Paradiso, e il Purgatorio; esistono Anime del Purgatorio inquiete e perturbanti, come il fanciullo di Angelo Giordano o l’Illuminato di Andrea Guastavino che, come bambini mai nati, altro non chiedono che di essere amate, ricordate; anime che, come il protagonista di a human heart looks like a fist wrapped in blood, videoinstallazione di Eleonora Rossi, si liberano dal peso della colpa – simboleggiato dal cuore – attraverso l’atto di coraggio del perdono.

Anche la Sophia Loren e il Marcello Mastroianni di Alida Pardo, da un fotogramma di Una giornata particolare, sono In attesa di liberazione. Potrebbero benissimo essere la Madonna e San Giuseppe. E poco importa che i loro profili non rispondano all’iconografia più nota.

Tutti, nessuno escluso, attendiamo la Luce, che nella moderna installazione di Giuseppe Palermo si accende su uno scroll led dopo che la parola “Loading” vi è apparsa per 2023 volte: tante quanti gli anni trascorsi dalla nascita di Cristo.

In questo enorme tempo i santi, cacciati dal presepe, si sono trasferiti altrove: è quanto accade in Sacred Earth 3 Sicily, fotografia satellitare di Max Serradifalco, dove un profilo di Madonna con Bambino appare tra terrazzamenti di grano appena arati, e in Secondo natura di Domenica Amoroso, una composizione di piante ornamentali le cui caratteristiche ricordano la Famiglia del Salvatore.

E i Magi, i pastori? Compariranno, come per prodigio, subito dopo Natale?

Difficilmente verremo accontentati. Al loro posto, una figura dalle gote rigonfie – Soffio di Alessia Forconi – emette aria dalla boccuccia a soffietto. È, come nella botticelliana Primavera, l’allegoria del vento, che spazza via costumi millenari. Nella scultura barocca di solito a soffiare sono i putti. Qui, al contrario, è una donna, a capo chino: figura di grazia. Forse, in un certo senso, di stanchezza. A furia di soffiare, si rimane senza fiato.

Gli stessi doni dei Magi al Bambinello – l’oro, l’incenso e la mirra – non sono più di casa. Sono stati sostituiti da un blocco di marmo ferito da una barra di metallo – Vesuvio di Alex Caminiti – e, in Interno di Sandra Attivo, da un flacone di vetro soffiato con dentro un amuleto.

Non che il significato cambi tanto: se l’oro indicava la regalità, e l’incenso la divinità di Cristo, la mirra, usata per l’imbalsamazione, anticipa la morte.

L’arte, al pari della fede, ci espone sempre al sacro brivido; non se ne nasconde o compiace: lo rievoca.

Del resto, come la recente pandemia ci ha insegnato a nostre spese, l’acqua benedetta – fuor di metafora, l’oleografia del presepe – non è sufficiente a tenerci al sicuro.

E se neppure guanti e mascherine bastassero? Se tutte le fonti si fossero ingiallite e ricoperte di lastre respingenti? La scultura – Nel nome del di Antonio Tropiano – è un esercizio che non prescinde dal gesto, dello scultore come di chi la recepisce.

Bisogna provare per credere, toccare per capire.

Danzare – come, in Monolite Barocco, gli angioletti serpottiani di Emanuele Scuotto – l’eterna danza degli opposti: luce e tenebra, morte e vita, calma e caos.

Oppure ammettere, come fa Peppe Cuomo coi suoi Analoghi silenzi, che ad enigmi come l’Incarnazione del Verbo o la divina Trinità non esiste altro commento che il silenzio: non di chi si limita a tacere, ma di chi, contemplando, intuisce la debolezza della forza, l’unità del molteplice e la molteplicità dell’uno.

Valigie. Numerose e di misure differenti. Cosa mai conterranno? E perché mai sono chiuse, poggiate al suolo, all’interno di una serra? La serra di Ignazio Fresu, si capisce, ritrae il nostro mondo: ristretto, limitato. Ciò che non si capisce è se il Viaggio per Betlemme dei padroni dei bagagli finisca nello spazio che lo ospita – il giardino dell’Eden? – o sia appena cominciato”.


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