Se si pensa all’astrattismo geometrico in pittura, si è istintivamente tentati di associarlo a composizioni di forme pure e bidimensionali, più o meno intensamente movimentate dall’imprevedibilità del colore a seconda dell’orientamento delle ricerche dei diversi autori che, quando afferiscono dichiaratamente a quest’ambito, risultano comunque generalmente concordi nel ripudiare le eventuali suggestioni figurative a cui le loro composizioni possano accidentalmente dare adito. Tale linguaggio, elaborato agli inizi del XX secolo e rapidamente diffusosi in varie declinazioni nazionali, come Suprematismo, Neoplasticismo, Costruttivismo o Cercle et Carré, si basava sull’abolizione della terza dimensione e sul distacco dai valori emotivi, con l’obiettivo di promuovere un approccio razionale che fosse in grado di restituire ordine e armonia al caos del reale. Tali principi, variamente reinterpretati e anche “traditi” nel loro rigore ideologico con il passare degli anni, sono ancora gli elementi fondanti delle ricerche più recenti, che confermano l’intramontabile vitalità della tensione di una branca della pittura a indagare in accezione ritmica e numerica i rapporti tra sagome e colori.
Rispetto a queste premesse, ovviamente generiche e non esaustive, si colloca in un’interessante posizione di confronto dialettico la pittura di Farid Rahimi (1974, Losanna, Svizzera. Vive e lavora a Milano), che pure a una prima disamina sembra abbracciarne con convinzione tutte le conseguenze stilistiche ed espressive. L’occasione per addentrarsi nella sua poetica eccentrica è la mostra Screen Rooms, recentemente inaugurata a KAPPA-NöUN (spazio espositivo fondato a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna, dal collezionista Marco Ghigi), dove l’artista presenta gli ultimi esiti della sua sperimentazione nell’omonimo ciclo di lavori, realizzati dal 2019 a oggi, che si propongono come naturale evoluzione della serie Empty walls, su cui si era concentrato negli anni precedenti. Se in quest’ultimi il motivo ricorrente era un angolo formato da due pareti dove altre aperture, assimilabili a porte o finestre, complicavano la costruzione prospettica impedendo una visione onnicomprensiva dello spazio pittorico, qui lo sguardo dello spettatore, anziché restare sulla soglia dell’immagine, viene percettivamente “risucchiato” al suo interno fino a trovarsi intrappolato in un labirinto di piani mentali intersecati e sovrapposti dove è ancora più arduo decidere se ciò che ci si trova di volta in volta di fronte sia un varco o un fondale.
Anche in Screen Rooms l’artista, il cui interesse primario (in linea con i canoni più rigorosi della pittura analitica) è la definizione dello spazio fittizio dell’immagine tramite elementi astratti e campiture di colore, sembra utilizzare il riferimento architettonico evocato dal titolo come segnale di allarme per metterci in guardia rispetto al carattere ambiguo e convenzionale di ogni rigida categorizzazione. Se da un lato le sue composizioni sono il risultato di lunghe valutazioni sul bilanciamento delle relazioni cromatiche e formali messe in campo, dall’altro la scelta dell’assetto finale del dipinto (ovvero la decisione di interrompere la sequenza di stratificazioni e velature tramite le quali esso prende forma) risponde in ultima istanza a un impulso istintivo ed emozionale. Per Farid Rahimi, infatti, quella che a prima vista potrebbe apparire come una griglia strutturale che scandisce spazialmente la visione è in realtà l’esito di un’intuitiva sovrimpressione di pennellate mai subordinate a un disegno progettuale predeterminato, ma liberamente guidate da provvisorie mascherature che delimitano in corso d’opera le aree di verniciatura. Tale componente irrazionale, che viene paradossalmente amplificata e non arginata dalla griglia man mano che l’occhio insegue il moltiplicarsi delle sue enigmatiche sfasature, emerge quasi a tradimento proprio quando l’applicazione della logica sembrerebbe massima.
Le grandi campiture di colore che definiscono le diverse parti del quadro nascono dunque in modo parzialmente aleatorio come sviluppo dell’idea che dietro ai piani pittorici che esse individuano possano esserci infinite altre potenziali immagini. Quelle che riusciamo a intravedere sono allora solo alcune possibili manifestazioni degli innumerevoli universi paralleli che le compresenze spazio-temporali evocate dalla pittura sono in grado di attivare. A conferma di questo notiamo come ciascun dipinto sia frammentabile in un numero idealmente illimitato di porzioni visive, ognuna delle quali può essere considerata come un’opera autonoma che non necessita del resto per avere coerenza e senso. Se ci si sofferma invece sulla visione d’insieme, l’impressione è che all’origine della misteriosa coesione che riesce a mantenere, pur nel proliferare delle sue interne contraddizioni, ci sia proprio l’intenzione dell’artista di “mettere in prospettiva” il suo immaginario astratto, originariamente costituito da successioni ritmiche di entità cromatiche di per sé non allusive alla profondità. L’eterodosso punto di fuga di questa prospettiva multicentrica è il riquadro nero che compare in diverse posizioni e dimensioni in ogni dipinto e che potremmo considerare la chiave di volta delle costruzioni visive di Farid Rahimi, sia nella sua funzione di punteggiatura ritmica e sia come incarnazione dell’equivoca coincidenza tra illusione di profondità e sbarramento percettivo in cui risiede forse la fonte di maggiore fascino della sua pittura.
L’importanza di questo elemento è ribadita da Trappola 2 (2023), opera che da sola, nella sua radicale estraneità rispetto ai lavori in mostra, assume nei loro confronti la doppia valenza di contrappunto visivo e di indizio concettuale che arriva dritto al cuore della poetica dell’artista. Mentre i dipinti della serie Screen Rooms sollecitano la percezione con un virtuosistico proliferare di preziosità cromatiche e accenni di figurazione latente in cui sembra trionfare l’inaspettata e irriducibile soggettività dell’astrazione geometrica, il radicale bi-cromatismo giocato sui toni del nero e del bianco di Trappola 2 appare invece come una perentoria dichiarazione di intenti. Il rapporto di perfetta complementarietà tra questi due colori, considerati anche nelle loro reciproche intersezioni quando si sovrappongono per diventare rete, imprigiona lo sguardo in un irrisolvibile impasse tra la visione e la sua negazione, in cui si esplicita l’impegno dell’artista nell’esplorare da punto di vista concettuale la costitutiva indeterminazione dello statuto dell’immagine in pittura. Ed è proprio ragionando in questi termini che a mio avviso emerge più chiaramente in cosa consista l’evoluzione della ricerca di Farid Rahimi nel passaggio dalla serie Empty walls a Screen Rooms: non più l’accento sulla destrutturazione in chiave astratta dell’ingannevole percezione di un ambiente, ma l’analisi delle variazioni di una stanza-schermo concepita come laboratorio e archivio di immagini in cui ogni apparizione implica un occultamento e una sottrazione.
Info:
Farid Rahimi. Screen Rooms
06/04/2023 – 14/05/2023
KAPPA-NÖUN
Via Imelde Lambertini 5 – San Lazzaro di Savena (BO)
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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