La Fondazione Sabe per l’arte di Ravenna completa la programmazione espositiva dell’anno in corso con la mostra “FOTOGRAFIA E FEMMINISMI. Storie e immagini dalla Collezione Donata Pizzi” a cura di Federica Muzzarelli, ultima tappa di una trilogia di progetti dedicati alla fotografia. Dopo la collettiva “In suspensus” che coinvolgeva i lavori di Carlo Benvenuto, Enrico Cattaneo ed Elena Modorati nell’esplorazione del concetto di imitazione nel confronto con la pittura e la personale di Massimo Baldini “Italia Revisited” incentrata sul rapporto con il paesaggio, a essere chiamato in causa è ora l’aspetto sociologico e politico di questo medium in relazione alle pratiche identitarie e di genere. Il rapporto tra fotografia e femminismo, entrambi nati nella prima metà del XIX secolo, ha avuto diverse declinazioni a seconda dei contesti e delle epoche, il cui filo conduttore è la capacità della fotografia di costituire per le donne uno spazio di libertà di esistenza ed espressione a loro lungamente precluso in altri ambiti. Femminismo in fotografia, dunque, non come rivalsa di un’arte al femminile intesa in senso essenzialista, ma come possibilità di militare nel mondo parlando di corpo, azione, emancipazione, critica agli stereotipi (e anche egocentrismo) grazie all’indipendenza di un mezzo per molto tempo non gravato da stringenti regole accademiche e di sistema.
A questo approccio sono da ricondurre le cinque sezioni tematiche in cui si articola la mostra (Album di famiglia, Gender Identities, Stereotipi e spazi domestici, Ruoli e censure sociali, Libri e oggetti femministi), in ciascuna delle quali (tranne l’ultima a carattere documentario) una figura storicizzata viene messa in dialogo con ricerche più recenti, a dimostrazione di quanto, a distanza di decenni, la fotografia continui a rivelarsi uno strumento efficace nell’affrontare questioni sempre attuali nel loro persistere nel corso degli anni. Le opere in mostra provengono tutte dalla collezione di Donata Pizzi, illuminata esperta di fotografia che nel 2013 ha avviato una sistematica acquisizione delle immagini più rappresentative della fotografia coniugata al femminile. Il progetto, inizialmente nato con l’obiettivo di colmare una lacuna nella valorizzazione della fotografia italiana ancora troppo misconosciuta a livello nazionale e internazionale, al momento dell’attuazione si è subito precisato nella sua esclusiva attenzione per le autrici donne, il cui lavoro risulta a suo avviso più interessante di quello dei colleghi maschi coevi più noti al grande pubblico. Attualmente la collezione è composta da circa 300 immagini realizzate da 90 differenti fotografe dagli anni ‘60 a oggi ed è fruibile in formato digitale su un sito web dedicato che affianca a ogni opera un apparato documentario bilingue. La mostra a Ravenna costituisce un tassello di un progetto di più ampio respiro volto a far conoscere la collezione all’estero tramite una collaborazione strutturata con gli istituti di cultura e in Italia con l’apertura, auspicata per il 2025, di uno spazio a Roma in cui la collezione e gli apparati bibliografici a essa connessi possano essere sempre fruibili da parte del pubblico.
Il motore propulsivo della mostra (e anche l’ispirazione iniziale del progetto collezionistico) è il tavolo con riproduzioni anastatiche delle maquette originali dello storico volume sulle pratiche creative femministe “Ci vediamo mercoledì, gli altri giorni ci immaginiamo” pubblicato nel ‘78 dall’editore Mazzotta. Il libro, firmato dalle fotografe che componevano il “gruppo del mercoledì” (Adriana Monti, Bundi Alberti, Diana Bond, Esperanza Nunez, Mercedes Cuman, Paola Mattioli e Silvia Truppi), nacque come restituzione della loro esperienza di appuntamento regolare in cui confrontarsi come donne e come artiste in una sorta di pratica autocoscienza per immagini in cui lo scambio di idee professionali si intersecava indissolubilmente alla militanza politica e alla dimensione autobiografica. Se all’epoca la pubblicazione non ebbe alcun successo, oggi è una preziosa testimonianza di una congiuntura epocale irripetibile, in cui il nesso arte e vita era la principale modalità di affermazione e disseminazione di un’identità marginalizzata. Un’altra opera centrale è la fotografia-oggetto “Cosa ne pensi del movimento femminista?” (1974) di Paola Mattioli, contenitore per cosmetici della madre (la prima donna magistrato in Italia) rivestito internamente delle fotografie della prima manifestazione femminista a Milano.
Tra i lavori storici più iconici in mostra troviamo anche alcuni scatti della serie “I Travestiti” (1965-1970) di Lisetta Carmi, uno dei reportage più intensi e importanti della storia della fotografia, esito della sensibile frequentazione dell’artista delle loro case private nei vicoli dell’ex ghetto ebraico del centro di Genova. Gli scatti documentano il bisogno di quotidianità e di normalità di questi emarginati costretti a vivere in uno specifico quartiere, un mondo fatto di festicciole in casa, arredi démodé, ninnoli, collane di perle e tè con le amiche. Anche qui la prima edizione del libro che ne scaturì, pubblicata nel ‘72 da Sergio Donnabella, per la casa editrice Essedì (creata appositamente per questa pubblicazione che aveva ricevuto il no di altri editori) e oggi oggetto di culto, venne rifiutata dalle librerie come scandalosa e la maggior parte delle copie finirono al macero.
Le opere realizzate negli anni più vivi della contestazione dialogano in mostra con quelle delle generazioni più giovani che, benché in apparenza molto distanti come estetica e impegno militante dai primi, a uno sguardo più approfondito si rivelano altrettanto significativi nel raccontare, con un linguaggio più concettuale e astratto, l’evoluzione della società da un punto di vista femminile. Tra questi menzioniamo gli scatti pervasi di inquietanti sortilegi di Alessandra Spranzi, solita a ricreare situazioni surreali attraverso oggetti domestici fuori controllo che trasformano l’habitat familiare della casa in un ambiente pericoloso e misterioso, l’indagine socio-visuale in cianotipia di Giulia Iacolutti sulle detenute trans di un penitenziario maschile a Città del Messico in cui la carcerazione si sovrappone all’ulteriore corpo-prigione maschile e gli autoritratti di Alba Zari, un diario di viaggio alla ricerca delle sue origini in cui l’artista scansiona l’immagine del suo volto escludendo i tratti trasmessi dalla madre per evidenziare quelli ereditati dal padre mai conosciuto.
Info:
FOTOGRAFIA E FEMMINISMI. Storie e immagini dalla Collezione Donata Pizzi
a cura di Federica Muzzarelli
5/10 – 15/12/2024
Fondazione Sabe per l’arte
Via Giovanni Pascoli 31, Ravenna
www.sabeperlarte.org
www.collezionedonatapizzi.com
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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