Francesca Svampa, produttrice indipendente, filmmaker e artista visiva italiana residente a Barcellona, Spagna, espone dal 5 al 28 aprile 2024, presso la galleria Il Meccanico di Verona, “A Movie in a pic”, una collezione di negativi che generano micro film. Il progetto, esposto assieme alla serie “Gli Stressonauti” di Giovanni Sellari nella doppia personale intitolata “Analogue – Artificial” si presenta come una modalità alternativa di intendere la fotografia analogica. Le immagini hanno origine in un negativo, parte di esso o una sua manipolazione di qualche tipo. Una collezione di film molto corti. Un progetto che nasce come un gioco per poter fare film e lavorare in analogico con il minimo di risorse.
Simone Azzoni: Ci puoi descrivere il tuo progetto e la sua genesi? Come hai lavorato?
Francesca Svampa: A movie in a pic è un progetto che consiste in una collezione di negativi, la cui immagine genera un film di massimo 60 secondi. Mi ricordo che ero tornata a vivere in Europa, a Barcellona, dopo aver frequentato il Maestria en Cine Ensayo alla scuola EITV di Cuba. Avevo molta voglia di fare film e di sperimentare con l’analogico, ma le condizioni lavorative e i costi di una città europea non me lo permettevano. Molto frustrante. Così ho avuto quest’idea per poter soddisfare con poco tempo e poche risorse economiche la mia esigenza creativa. Il progetto permette, in piccola scala, tutto il processo produttivo. Inizio dallo scatto in modo intuitivo, vale tutto: dagli incontri per strada alla quotidianità. Visto che il film è solo un’immagine, non ho bisogno di premeditare troppo, anche se è successo di andare a fare una foto in particolare che avevo in mente. Poi c’è il momento dello sviluppo e l’edizione del film, o montaggio, in digitale. Dal punto di vista creativo uno degli aspetti più interessanti per me è poter realizzare un’idea filmica condensata. Come in un seme, c’è già tutto in potenza, ma è molto piccolo.
Cosa significa per te dialogare con l’analogico? Quali messaggi comunica la materia che lavori, la sua vocazione culturale? Cosa recepisci dalla pellicola?
È interessante l’uso della parola “dialogare” perché effettivamente si può intendere come un vero e proprio dialogo. Dell’analogico mi cattura la sua fragilità come oggetto e processo da un lato, e il suo mistero dall’altro. Quando scatto una foto analogica, solo con lo sviluppo l’immagine si “rivela”. Da questa visione nasce una risposta e così via. Il processo di sviluppo è un momento di relazione con l’immagine ancora prima di vederla. Ha i suoi tempi, richiede partecipazione, ma è anche un momento rilassato, domestico, di attesa creativa, in cui devi usare le mani. In qualche modo penso che il mio stato d’animo durante lo sviluppo, in qualche modo, si trasferisca alle immagini, penso sia un momento magico. Nella foto c’è sempre il momento presente, dello scatto e dello sviluppo. In quell’immagine c’è quell’acqua usata, quel tremolio, quel graffio, che sono il risultato di un insieme di micro eventi propri e unici del momento presente. È unito all’organicità della pellicola, che come il corpo decade con il tempo, la rende viva e unica.
Il messaggio influenza e dà la sostanza all’immagine? In che modo?
Il film è sempre “chiamato” dall’immagine per quanto riguarda la costruzione visiva. C’è una fase iniziale di interrogazione dell’immagine, tanto a livello formale che di contenuto. Poi c’è l’incontro con l’errore che è spesso foriero di nuovi cammini. Nel film c’è un interrogarsi e il messaggio è aperto. Non cerco una risposta chiusa e ne risulta un’immagine più potente, perché l’apertura lascia spazio al domandarsi, all’immaginare, alla ricerca. Stimola l’immaginazione. Concentrandomi su una struttura formale, le tematiche emergono spontaneamente e sono quelle già presenti nel mio sguardo. Un po’ come pensare per immagini, che è naturale per me. Quindi c’è il tema dell’abitare, dello spazio pubblico, così come la donna, il cinema e le relazioni, sia micro che macro. Pensando all’esposizione “Analogue – Artificial” che mi coinvolge da Il Meccanico, mi incuriosisce moltissimo che gli spettatori vedano la foto, poi il film, e quando rivedono la foto il lorouo sguardo è cambiato. Come? Magari immaginando più film a partire dalla stessa immagine, perché ogni persona ha una relazione diversa con essa. Ecco, in questo senso mi piacerebbe molto che mi dicessero com’è la loro esperienza.
Qual è per te il confine tra cinema sperimentale e videoarte?
Tra i due il confine penso sia sfumato. Generalmente, il luogo e la forma di proiezione fa propendere per un ambito o per l’altro. Per quanto mi riguarda, penso sempre di fare un film. A meno che non sia qualcosa che non si “articola” nel tempo, allora penserei alla video arte. Un esempio è una serie di video auto-ritratti che chiamo “self-portrait with light”. Questo confine si presenta nel momento della scelta su come e dove presentare un lavoro. Nel caso di “A movie in a pic”, per esempio, alcuni corti sono stati presentati in film festival, nemmeno sperimentali, ma senza la foto e il negativo. In “Analogue – Artificial”, invece, il formato espositivo presenterà la forma completa del progetto, con foto e negativo. Ma, allo stesso tempo, questo è un progetto polimorfico, non c’è una forma corretta, le variazioni sono emanazioni della stessa idea.
Immagine e immagine in movimento: come hai costruito questa relazione di senso?
Il tempo è la variabile cruciale, nella foto è potenzialmente infinito, mentre nell’immagine in movimento il tempo è dettato dal film e la sua durata è parte del senso. Poi entra anche la frammentazione, modificazione e movimento della e nell’immagine. Per ogni immagine è molto intuitivo e credo che dipenda dall’aver posto a questo gioco poche e semplici regole. La prima è: ogni cortometraggio è creato con una sola immagine, quella di un negativo 120 mm sviluppato a mano. La seconda è: ogni cortometraggio dura al massimo un minuto. C’è anche una regola non scritta: in ogni film, almeno per un momento, si deve vedere l’immagine nella sua interezza. Per il resto non ci sono vincoli, ristrettezze o aspettative. Ogni film può avere un trattamento, tema e linguaggio diverso. L’immagine si può modificare, manipolare, distruggere. Il vincolo, la restrizione è un aiuto alla creazione. Il formato così ridotto e avere una sola immagine mi portano a fare un estremo lavoro di sintesi, a focalizzare e sviluppare un’idea centrale, sia formale sia tematica.
C’è in fotografia un ritorno a una certa artigianalità (pensiamo ad esempio alla cianotipia) come te lo spieghi?
Intuitivamente direi che è per il confluire di due elementi: l’aumento dell’accesso alla conoscenza di queste tecniche dato dal web e il piacere di usare le mani in un contesto che esige la relazione con uno schermo nella maggior parte delle attività quotidiane. Personalmente mi attrae l’imperfezione dell’artigianalità. Proprio perché con il digitale e la tecnologia si possono creare immagini perfette e nel mondo commerciale c’è la rincorsa all’ultimo modello tecnologico, l’”accidente”, avvenuto durante un processo a mano, diventa interessante e unico, così come l’imperfezione. Ovviamente non significa fare le cose male, ma cambia l’atteggiamento nei confronti del processo e del risultato. Richiede un’apertura che a sua volta rompe e può mostrare vie interessanti da percorrere.
Info:
Francesca Svampa e Giovanni Sellari, Analogue – Artificial
05/04/2024 – 30/04/2024
Il Meccanico
Via San Vitale 2b Verona
www.ilmeccanico.org
È critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine presso l’Istituto di Design Palladio di Verona e Arte contemporanea presso il Master di Editoria dell’Università degli Studi di Verona. Ha curato numerose mostre di arte contemporanea in luoghi non convenzionali. È direttore artistico del festival di Fotografia Grenze. È critico teatrale per riviste e quotidiani nazionali. Organizza rassegne teatrali di ricerca e sperimentazione. Tra le pubblicazioni recenti Frame – Videoarte e dintorni per Libreria Universitaria, Lo Sguardo della Gallina per Lazy Dog Edizioni e per Mimemsis Smagliature nel 2018 e nel 2021 per la stessa casa editrice, Teatro e fotografia.
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