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Franco Fontana: colore e superficialità

Franco Fontana: colore e superficialità

Anche senza conoscere il nome dell’autore, sicuramente chiunque è incappato in un’immagine di Franco Fontana (Modena, 1933), e con buona probabilità se la ricorda. I suoi scatti sono attraenti, iconici, unici e il loro effetto appagante è istantaneo. Ce ne dà conferma visitare la mostra Franco Fontana. Colore al museo di Santa Giulia di Brescia, curata dallo Studio Fontana. E ci si accorge anche che, una volta stregati dal suo magnetismo, per quanto ci si ostini a ponderare una fotografia di Fontana, non si troverà nulla in più di ciò che ci era apparso immediatamente.

Franco Fontana, “Autostrada”, 1974, ® Franco Fontana, courtesy the artist and Brescia Musei

A differenza di altri grandi fotografi italiani dagli anni ‘70 in poi, Fontana si abbandona alla capacità illusoria della fotografia di far sembrare perenni e perfetti mondi contingenti, ma senza la consapevolezza necessaria per poter sfruttare legittimamente questo potenziale. Questo effetto inerente al medium della fotografia, ossia la sua responsabilità e inestricabilità nei confronti del reale, è stato oggetto di riflessioni e sperimentazioni da parte di innumerevoli critici, pensatori e artisti: ignorare la questione non la risolve né smentisce i punti di vista opposti al proprio, ma con semplicità la pone al di fuori del discorso sulla fotografia come arte. Il fotografo al massimo può richiamare alla mente composizioni pittoriche astratte, ma come scrive John Szarkowski (in un saggio nel celebre libro William Eggleston’s Guide del 1976), per quanto riguarda fotografie con questa caratteristica «è il loro infelice destino ricordarci qualcosa di simile, ma migliore».

Franco Fontana, “San Francisco”, 1979, ® Franco Fontana, courtesy the artist and Brescia Musei

«Nelle sue foto Fontana esercita una violenza sulla realtà», afferma Caterina Mestrovich, specialista del lavoro del fotografo, in un saggio nel catalogo della mostra; ma con quale fine Fontana indulge in tale potere se non quello di rendere superficialmente gradevole una realtà mendace senza prendere atto della violenza stessa?  Tale carenza si manifesta anche nella scelta dei soggetti, solitamente già di per sé appariscenti ed eloquenti. Non a caso, i suoi lavori più interessanti in mostra sono le poche eccezioni a questo modus operandi: monocromatiche tracce di pneumatici sulla neve, simili ma diverse tra loro; un guard rail reso astratto dalla velocità dell’automobile da cui è avvenuto lo scatto; indefinibili incisioni su un marciapiede milanese. Il compito di questo tipo di fotografia del paesaggio – soprattutto se così istintiva ed estetizzante – è quello di puntare il dito su ciò che solitamente passa inosservato. Se il dito viene puntato su ciò che già vedo (facciate sgargianti, campi in fiore, vestiti appariscenti) perché prestare attenzione? Anche quando fa il suo ingresso negli scatti la contingenza, tramite persone o veicoli che infrangono i soliti perfetti paesaggi statici, il ricorso alla classica nozione fotografica dell’attimo decisivo (anch’essa con il suo bagaglio di problematiche teoriche e filosofiche) è fine a se stesso. Anzi, proprio il fatto che Fontana alterni casualmente tra istanti specifici e scenari immobili non è sintomo di ampiezza di significati, ma di mancanza di essi. L’essenza degli scatti cambia completamente e il fotografo sembra non accorgersene, concentrandosi solo sui begli abbinamenti cromatici.

Franco Fontana, “Frammento”, 1981, ® Franco Fontana, courtesy the artist and Brescia Musei

La semplicità, che nell’arte è sintesi feconda, si rivela essere invece solo semplicità. Quelle di Franco Fontana sono immagini fatte per essere infallibilmente apprezzate, non per essere oggetto di riflessione; sono precursori di un tipo di fotografia che da anni spopola su Instagram proprio perché capace di attrarre l’attenzione e guadagnare l’approvazione dell’osservatore più distratto. Puro eye candy: niente di male in tutto ciò, anche se inevitabilmente diverge da alcune citazioni sulle pareti che esigono molto più di una fruizione leggera e senza pretese. «È molto più difficile fare il colore che il bianco e nero». «Mi piace dire che il paesaggio attraverso me si fa l’autoritratto». «Ciò che fotografiamo non è quello che vediamo, ma quello che siamo». Se tali affermazioni del fotografo possono apparire iperboliche, altre sembrano proprio non riferirsi ai suoi stessi lavori, dimostrando un’incoerenza di base tra pensiero e produzione: «Non voglio, però, usare il colore con compiacimento, non metterò mai un ombrellino rosso su un prato verde, diventa la masturbazione del colore questa». «Scattare è questione di pensiero. […] Attraverso il suo sguardo, il fotografo rende visibile l’invisibile». Ma l’intera pratica di Fontana consiste nel ritagliare il visibile e l’evidente, proprio in quanto visibile e evidente, ignorando qualsiasi cosa vada oltre l’apparenza estetica.

Franco Fontana, “Wilshire Boulevard L.A.”, 1979, ® Franco Fontana, courtesy the artist and Brescia Musei

La differenza di rilevanza e influenza tra Fontana e gli altri grandi fotografi italiani degli anni ‘70 e ‘80 a cui è spesso affiancato è oggi evidente, perché mentre la novità e la riconoscibilità all’inizio possono accattivare, alla lunga conta il contenuto, e Fontana – anche letteralmente – ha da offrire solo forma. Luigi Ghirri emerse nei suoi stessi anni e insieme incoraggiarono l’utilizzo del colore in fotografia. Addirittura il primo libro della casa editrice di Ghirri Punto e Virgola fu Skyline di Fontana. Ma Ghirri ha fondato un modo di vedere articolato e coerente, la cui influenza riverbera oggi più potente che mai. Lo stile di Fontana è forte e riconoscibile, ma non ha messo radici: perché è pura superficie. Nessuno può adottarlo per esprimere un’idea propria, poiché non è un linguaggio ma un esercizio di stile. Anche per quanto riguarda l’oggetto-fotografia, Fontana non ha né l’anima e poesia di Luigi Ghirri, le cui minute immagini possono – e vogliono – essere colte in uno sguardo, come cartoline o foto da un album di famiglia, parlando al subconscio modo di vedere di tutti noi prima che alla retina, né – per citare l’altro massimo esponente della fotografia del paesaggio di quegli anni – la ricchezza di dettagli di Gabriele Basilico, i cui grandi formati sono una gioia per gli occhi e le cui riproduzioni editoriali o digitali incidono in maniera pesante sull’impatto scenografico.

Franco Fontana, “Basilicata”, 1975, ® Franco Fontana, courtesy the artist and Brescia Musei

Una mostra di Franco Fontana non ha quindi molto di più da offrire di un catalogo ben fatto.  Non avendo le fotografie un significato intrinseco, un’esposizione dovrà allora parlare per loro, esponendo i contenuti in modo coeso e attraente per fornire un resoconto il più possibile soddisfacente della produzione dell’artista. E in questo senso la personale di Santa Giulia fa un lavoro egregio: è uno dei rarissimi casi in cui la mostra ha più carattere delle opere esposte, e le eleva fino a renderle memorabili. La distribuzione tematica delle opere è coerente e intuitiva, coprendo gran parte della produzione dell’artista e passando man mano da scenari umani densamente popolati a paesaggi naturali astratti. Le transizioni si manifestano tramite la riflessione nello spazio di contrasti cromatici campionati direttamente dagli scatti, colorando pareti e pavimenti, ma anche tende e apposite cornici metalliche di divisione delle sale, dimostrando eleganza e attenzione al dettaglio. Quindi, che si tratti di arte o meno, e pur non necessitando di uno spazio museale per essere esperito, dubito che si possa presentare il lavoro di Franco Fontana in modo migliore di questo.

Luca Avigo

Info:

Franco Fontana. Colore
A cura di Studio Fontana
08/03/2024 – 25/08/2024
Museo di Santa Giulia
Via dei Musei, 81 b, 25121 Brescia BS
www.bresciamusei.com


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