Johan & Levi editore ha pubblicato “+spazi Le gallerie Toselli” (2019, 680 pp, 75.00 euro) a firma di Germano Celant; si tratta di una summa ragionata e comparata tra l’attività della Galleria Toselli (dalla prima apertura, a Milano, in via Borgonuovo, nel 1967, fino alla chiusura della sua ultima galleria, di via Pagano, nel 2016) e il panorama internazionale che gli faceva da sfondo. Dire che in questo libro troviamo un pezzo di storia dell’arte contemporanea è dire troppo poco: qui ci sono documenti, rimandi, confronti, immagini che ci aiutano a ricostruire un percorso di cinquant’anni di attività di un gallerista che ha avuto fede nell’arte contemporanea e allo stesso tempo troviamo una cronologia dell’arte occidentale che ci fa vedere le analogie e i numerosi contrappunti che la avvaloravano.
Il numero degli artisti che sono transitati, negli anni, attraverso i suoi spazi espositivi è davvero impressionante e le poetiche che emergono sono sì legate a un clima onnicomprensivo e pervasivo, ma sono anche parte di una specifica singolarità, perché non appartengono semplicemente a un solco monolitico, ma sono parte integrante di una varietà del pensiero che ci permette a tutti noi di respirare in piena libertà. Franco Toselli è stato un grande protagonista della cultura visiva di questi ultimi cinquant’anni e di certo tutto il suo lavoro sta in buona compagnia, rispetto al panorama italiano, con altri galleristi del peso di Gian Enzo Sperone, Lucio Amelio, Fabio Sargentini, Giuseppe Morra. Inoltre, nota di non poco conto, Toselli ha spesso accompagnato le sue mostre con suoi brevi commenti poetici, testimonianze che sono state pubblicate non solo sui cataloghi della galleria, ma anche sulle pagine della gloriosa rivista “Domus”, quando a dirigerla era Lisa Licitra Ponti. Tra gli artisti che sono passati attraverso gli spazi delle sue gallerie, possiamo ricordare (in ordine alfabetico e tralasciandone fin troppi) i nomi di: Peter Angermann, Alighiero Boetti, Daniel Buren, Francesco Clemente, Tony Cragg, Gino De Dominicis, Luciano Fabro, Bonomo Faita, Piero Gilardi, Dan Graham, Jan Knap, Joseph Kosuth, Sol LeWitt, Robert Mangold, Mario Merz, Luigi Ontani, A.R.Penck, Paola Pezzi, Emilio Prini, Salvo, Richard Serra, Antonio Serrapica, Antonio Sofianopulo, Lawrence Weiner…
La prima domanda che sorge spontanea è: caro Franco, come sei riuscito a mettere insieme tutti questi artisti?
Caro Roberto, quanti sono? È vero gli artisti vedevano la galleria come un riferimento, come progetto di mostra. Alcune di queste mostre fanno parte della leggenda Toselli come quelle realizzate con Paolini, Fabro, Boetti, Serra, Asher e tantissime altre, come si può vedere dal libro. La mia galleria è nata come galleria di ricerca e come tale ancora vive. Molti artisti, una continua idea di proposta, non una galleria di rappresentanza, ma un pensiero in continua evoluzione fino a portofranco. Solo questo è il motivo delle tante mostre e dei tanti artisti.
Tu esordisci nel 1967, con la tua prima sede in via Borgonuovo: gli anni erano quelli di un’espressione artistica nel solco della cultura disseminativa che Harald Szeemann, direttore della Bern Kunstahalle, convaliderà nel 1969, con una mostra che ha segnato tutta un’epoca e fu un chiaro segnale di svolta: When Attitudes Become Form. Come hai vissuto il passaggio dagli anni della durezza ideologia a quelli della leggerezza?
In quel periodo guardavo molto il lavoro di Mario Merz: nessuna durezza ideologica ma una grande energia di natura cosmica che si diluiva nella delicatezza della poesia e del disegno. I suoi scritti sono per me una fonte preziosa e rispondono alla vera natura dell’arte. Allora desideravo esporre gli artisti dell’Arte Povera e i concettuali americani di cui riconoscevo la straordinaria vitalità. Questa energia in espansione ha occupato lo spazio della mia galleria. Objet cache toi è un lavoro di Mario del ‘68, dove l’arte coincide con l’ideologia. Il pensiero dell’arte ha una sua natura, non sono io a decidere… gli angeli di Jan Knap non erano previsti, così come non erano previsti i tramonti di Salvo e i disegni di Lisa Ponti. È stato l’inizio della soft revolution, e una mostra alla Triennale di Milano, curata da Elena Pontiggia con gli artisti di portofranco nell’estate del 2018, ne è stata una conferma.
In questa tua lunga e feconda attività di gallerista c’è una mostra che rimpiangi di non essere riuscito a fare?
So di non aver fatto una mostra di fiori di Salvo e di non aver concluso una collettiva dedicata all’asino e una mostra di Anselm Kiefer, con cui dialogavo già negli anni Ottanta.
Tu chiudi ufficialmente l’attività di gallerista nel 2016, ma in realtà non ti sei mai fermato: ancora adesso continui a produrre mostre con i tuoi artisti più giovani. Quali sono gli obiettivi che, oggi, ti proponi?
Fino a quando sei nel pensiero dell’arte il lavoro continua. Microbus è il titolo di una mostra sulla fragilità: oggi penso che la fragilità sia una difesa. Microbus è il grillo di un racconto di Jean Cocteau scritto per Charlie Chaplin; ha ispirato la mostra con gli acquarelli di Braghieri e le piccole sculture di Kazumasa… solo fiori. Hanno chiesto a Jean Cocteau cosa salverebbe della sua casa-museo in caso d’incendio, “il fuoco” ha risposto…
Mostra di Jo Baer nello spazio di via Melzo, Milano 1974. Foto Giorgio Colombo, courtesy Franco Toselli
Emilio Prini e Lisa Ponti nella Galleria Toselli, Milano, inizio degli anni Novanta. Foto Davide Colombo, courtesy Franco Toselli
Antonio Sofianopulo “Les Jeux des enfants” 2019, olio su tela, cm 80 x 100, courtesy Franco Toselli
Antonio Serrapica “Vita nevicata” 2007, stampa fotografica dipinta, pezzo unico, courtesy Franco Toselli
È direttore editoriale di Juliet art magazine.
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