Era il 29 novembre del ‘97 quando Francesco Nucci, accompagnato da Achille Bonito Oliva, Pietro Montani, Daniela Lancioni e Mario Codognato – oggi sul podio dei criticstar venerati e inseriti all’interno della storiografia contemporanea – iniziava, con il gruppo Kounellis, Kummer, Pirri e Rüdiger, a mettere le basi, nel territorio romano, di una nuova filosofia e di una fruizione dell’opera d’arte, creando l’odierna Fondazione VOLUME!. Negli anni in cui ci si riprendeva dal crollo del mercato dell’arte – lo stesso che, dopo la dissipazione e il consumo sfrenato portato dagli impetuosi anni ‘80, ha visto la quotazione di molti artisti internazionali abbassarsi anche del 50%, facendo chiudere i battenti a numerose gallerie storiche e internazionali, VOLUME! cavalcava la scia della crisi creando per contro l’idea di luogo contenitore. Lo stendardo affisso alla sua balconata regia sposava tutt’altro che il white asettico delle gallerie, per spostarsi invece sulla frugalità grezza del cemento, la continua stratificazione di pigmenti sempre diversi e la ricerca di ulteriori pensieri sotto la sedimentazione di tracce di interventi artistici passati: «un attrattore alchemico di energie», per citarlo alla lettera.
E dunque, come si suol dire, se si desidera un cambiamento, si deve agire diversamente. Ancora oggi, la potenzialità di Fondazione VOLUME! è fortemente difesa nel tempo mediante la rivendicazione esplicita dell’idea di investimento culturale, e soprattutto tramite un rifiuto consapevole dell’atmosfera di una galleria d’arte, fatta di sorrisi compiaciuti, brusii intellettuali fintamente pretenziosi e champagne scadenti. Per quanto possano inebriare la mondanità e i linguaggi politichesi, chi scrive – perlomeno, per chi ciò lo ricorda – cerca sempre di far prevalere l’idea che dietro alle logiche della compravendita, vince sempre il presunto “messaggio” che un’opera intende tramandare, in un rapporto inevitabile con il proprio palcoscenico. Questo principio è alla base di ogni opera site-specific, indipendentemente dal fatto che sia vendibile o no. Nomi come Abramović, Le Witt, Esposito, Buren, Levini o Paladino – per citare alcuni artisti già storicizzati – varcata la soglia di VOLUME! accoglievano politicamente la logica dell’opera d’arte vista non solo come significato, ma come contenitore di valori significanti: gli stessi, traduttori poliglotti, che raccontavano la loro contemporaneità.
Il lavoro di Valentina Palazzari (Terni, 1975) costruito appositamente per VOLUME! ed esposto fino al 31 ottobre, invita a porre un accento grave e urgente sul potere della riflessione e, afferma l’artista, su «la perdita dell’incanto di fronte alla bellezza del mare, metafora della condizione culturale odierna intesa come una mancanza di libertà e di tempo da dedicare al pensiero». Il ribaltamento della sequenzialità logica inizio-fine, propria del pensiero verticale, intensifica la forza immaginifica del lavoro di Palazzari, la quale pone una frattura al percorso “lineare” tradizionale, occludendo l’ingresso dello spazio con barattoli di vetro, il cui contenuto acquoso si fonde con la ruggine che l’artista ha prodotto per racchiuderla al loro interno. Il processo associativo dello spettatore è immediato, ma libero di muoversi e alterarsi continuamente senza seguire un collegamento narrativo consecutivo, ma frazionato. I cavi elettrici che l’artista innesta all’interno dello spazio, annullando la loro funzione di scarica energetica, si appropriano di un’identità naturale, invadendo lo spazio come anemoni fluttuanti.
Tra le righe “FU MARE”, non solo titolo dell’esposizione ma anche di un’opera, è di per sé, già nella sua fenomenologia segnica, un invito ad attivare un continuo rapporto mnemonico fra retaggi culturali tradizionali, e la presa di coscienza di ciò che è presente e gettato a terra. È una continua allegoria di quello che rimane: una parvenza di conoscenza individuale che si relaziona forzatamente a un immaginario collettivo. Ciò che richiama l’elemento marino, caro all’artista, viene poi lasciato volutamente in balia della libera interpretazione soggettiva; l’artista insiste, attraverso la materia utilizzata, su quanto il punto di fuga non abbia coordinate misurabili. La carica tensiva che guida l’occhio ad addentrarsi nello spazio e a seguirne il percorso, lo induce, di contro, a uscirne, riecheggiando così quell’archetipo perturbante proprio del movimento strisciante e serpentino che investe i cavi elettrici. Ed è proprio pizzicando le corde di fili attrattivi e repulsivi cognitivi che Palazzari scarica la funzione stessa della materia utilizzata: l’associazione tra il cavo elettrico industriale di natura plastica e un elemento marino (o una sua creatura) intensifica la potenza segnica ambivalente della scritta “FU MARE”. Lo scenario irruento e oscuro che insiste nell’immaginario dello spettatore è quello di una geomorfologia marina prosciugata, dove l’elemento acquoso è assente e dove il suo ricordo risuona nella memoria attraverso il canto di una sirena lontana, la cui presenza e traccia si palesa, parafrasando Sarchioni, non più mediante «la concretezza della realtà materiale» , ma mediante l’«impalpabilità della materia virtuale».
Info:
Valentina Palazzari FU MARE
Testo critico di Davide Sarchioni
27/09/2023 – 31/10/2023
Fondazione VOLUME!
via di San Francesco di Sales 86/88, Roma
https://www.fondazionevolume.com/index.php/it/
Laureata in Scienze dell’Architettura alla Sapienza di Roma, con diploma di master in Arte contemporanea e Management presso la Luiss Business School, attualmente lavora come stagista e project manager presso Untitled Association. Diplomata in Fotografia e Critica d’Arte a Bologna, attualmente porta avanti i suoi progetti personali ed è parte del team del progetto culturale Forme Uniche.
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