“In.finite vie di toni” (dicembre 2019, collana affinità elettive, edizioni ae di Valentina Conti) è il nuovo libro firmato dal critico Gabriele Perretta: un viaggio nella letteratura artistica contemporanea, una lucida critica in chiave fiabesco-poetica, uno sguardo pungente e ironico su quello che di artistico abbiamo avuto e abbiamo attorno. Le narrazioni contenute in questo libro sono un nuovo tassello della cultura mediale che vede il suo critico fondatore agire in prima persona. Se il medialismo ha introdotto, nella metà degli anni ‘80, in maniera lungimirante, un nuovo modo di costruire e intendere l’opera d’arte – riproducendo artisticamente immagini già esistenti nel mondo dei primi media, partecipando così in maniera attiva all’evoluzione scientifica, tecnologica e sociale, senza però mai perdere di vista il carattere sperimentale del fare artistico novecentesco – questo libro introduce un nuovo modo di fare critica attraverso l’utilizzo mediale della narrativa. Il risultato è uno scritto scorrevole e innovativo, a tratti molto personale, ben accompagnato dalle proto-pitture di Rodrigo Blanco che sembrano suggerire in uno spazio non definito le “In.finite vie di toni”, che in questo caso non sono solo delle note di colore, ma modalità di lettura e letteratura.
Come è nata l’idea di scrivere un libro di prosa che elogia l’aspetto poetico della vita – e dunque dell’arte – ma nello stesso tempo critica quello che artisticamente ci circonda e ci ha circondato?
Il libro nasce da una frase di Roland Barthes che viene menzionata da Angelo Shlomo Tirreno nella prefazione: “tutta la moneta logica è negli interstizi”. Ebbene sì, lo strumento di scambio che negli interstizi specula, si espande. Roland Barthes, in sede strutturalista e semiologica, anticipa l’intuizione sul cinema d’artista di Gene Youngblood con Expanded Cinema, cioè quella nozione di interstizio che noi individuiamo confrontando i campi di conoscenze e di espressione. Questo libro di prosa nasce dalla raccolta di interventi pubblicati per delle riviste, online o sul cartaceo.
Ci sono dei personaggi – penso, per esempio, a Molly Bloom – che rimandano a persone, artisti della contemporaneità (immagino che in questo caso la reporter possa essere Letizia Battaglia). Come ha scelto di inserirli, da dove è nato il tutto, qual è la genesi di queste narrazioni mediali?
L’agenda delle narrazioni mediali affonda le radici nell’esperienza degli anni Ottanta. Infatti, quegli anni sono stati cruciali per la svolta mediale: il laboratorio di Città&Città, la rassegna Città senza confine (1984), con una sezione di piccoli racconti, insieme a dieci anni di mostre di fotografia curate a Napoli presso Copyright, rappresentano il bacino costitutivo delle narrazioni mediali. In quel decennio ebbi modo di confrontarmi con tutta la ricerca della fotografia napoletana; conobbi Luciano D’Alessandro, cominciai a lavorare con Mimmo Jodice, poi con il gruppo di Ricerca Aperta, con Lello Mazzacane, Fabio Donato, Cesare Accetta, Antonio Biasiucci… Proprio allora, nello spazio espositivo di Ricerca Aperta, insieme al Diaframma Canon di Milano di Lanfranco Colombo, curai una mostra di Letizia Battaglia. Ma questo non vuol dire che il riferimento a Letizia è un riferimento lineare e diretto.
Le pitture, anzi proto-pitture, di Rodrigo Blanco ben si inseriscono e accompagnano il suo lavoro letterario. Per una volta è l’artista che accompagna il critico e non viceversa: c’è in lei un’esigenza di mescolare un po’ le carte, sovvertire i ruoli prestabiliti che tanto prestabiliti non sono o, comunque, non dovrebbero esserlo?
Le proto-pitture stanno per numeri primi, si tratta di indicarle come elemento primo. Anche se questo primo elemento nel libro non si vede, ma è enunciato attraverso l’elenco delle tavole, dove possiamo informarci che Penelope è l’infinito, attraverso una matita su tela 90×70; L’apparizione di un interno è sempre un olio e matita su tela 100×80. La pittura nel libro si trasforma in immagine riprodotta e accompagna alcune congiunzioni tra parola e segno visivo. Ad esempio, nel primo racconto si parla di Partenope e vediamo in Nascita (donna al mare), un segno che si trasforma in qualcosa di materico, è la riproduzione di una “colorità” che si “sgruma”. Mescolare le carte, dunque, significa giocare a scacchi con la pittura. L’uso che si fa della pittura è riproduttivo, ovvero la sua matericità diviene illustrazione foto-grafica.
In questo libro lei parla spesso anche di mondi “circoscritti” in un raggio d’azione artistica. Penso al carcere mediale o al giardino land-artistico: ancora una volta è forte la curiosità di conoscere la genesi di queste scelte.
Il riferimento ai mondi circoscritti riguarda sempre la critica mediale, che per un verso si presenta come il giardino ecologico e per un altro invece si presenta come museo in quanto architettura di controllo e di dominio del sé. Quindi, indirettamente, in un caso mi riferisco alla Land-art e nell’altro caso mi riferisco all’individuazione del Panopticon di Jeremy Bentham e alla riscoperta, da parte di Michel Foucault, dell’architettura delle società punitive. Proprio nel racconto sul Panopticon si parla di un soggetto, di un performer a cui manca il respiro, mentre nel giardino ecologico c’è quasi la simulazione di un tentativo di respirare meglio, anche se ironicamente questo tentativo si presenta come un’ecotopia impossibile.
Si ha l’impressione che questo sia un libro molto personale: penso all’introduzione, dove c’è l’incipit su Napoli che ricorda al lettore le sue radici, ma anche gli infiniti mondi interiori letterari che le appartengono: poetici, allegorici, onirici. Mi sbaglio?
Beh, non so se questi momenti mi appartengono, o sono io che appartengo a loro; c’è una distonia: la parola appartenenza è il tono della dissociazione, dell’esilio. Infatti, il racconto che lei cita è un omaggio indiretto all’esilio letterario di Raffaele La Capria, che lui affronta nel mitico Ferito a morte. Quella situazione lì è una sorta di ricerca del luogo, di un luogo preciso di Napoli: Palazzo Donn’Anna a Posillipo. Lo sguardo da una collina, dove la collina stessa e lo sguardo non ci sono più, ci sono i resti archeologici dello sguardo e della sua speciosità. Napoli è un’altra delle mie utopie letterarie, un sogno allegorico che fa i conti con l’incubo e con la poesia dirimente. Per me Napoli è il luogo dell’origine, è il luogo della crisi ed è anche il luogo del passaggio di frontiera.
In conclusione, dopo questo excursus su alcuni aspetti dell’arte contemporanea, attraverso il suo occhio instancabilmente mediale, ironico e intuitivo, quanto il mondo dell’arte ha bisogno della letteratura?
Per rispondere a questa domanda, vorrei innanzitutto ringraziare i due contributi critici che sono all’inizio alla fine del libro: quello di Angelo Shlomo Tirreno e quello di Ivan Fassio; ambedue affrontano la questione che lei mi pone. Negli ultimi tempi, come critico d’arte, ho assunto una posizione da letteratura artistica, che procede dando le spalle al futuro, come nelle tesi sulla storia di Benjamin, spingendomi così a reinterpretare le bellissime parole di Marina Cvetaeva, che diceva: “il linguaggio porta lontano il poeta”. In definitiva penso che la parola sia la tecnologia del futuro.
Rita Alessandra Fusco
Carl Andre, vista dell’installazione Steel Sum 15, alla Galleria Artiaco, 2013, ph courtesy Alfonso Artiaco, Napoli
Vista parziale della mostra di Letizia Battaglia alla galleria Magazzini Fotografici di Napoli (2020); ph courtesy Magazzini Fotografici
Rodrigo Blanco, L’aristocratico, 2019, olio e matita su tela, 120 x100 cm
Fabrizio Passarella, RETROPHUTURE Abschiedselegien, 2018-2020, frame da video, ph courtesy Fabrizio Passarella
Maurizio Cannavacciuolo, Amore contro natura, 2000, pittura su tela
is a contemporary art magazine since 1980
NO COMMENT