Oggi siamo abituati a circoscrivere la nostra vita all’interno di uno spazio domestico, sociale, lavorativo, regolato da norme che noi stessi amministriamo. Questo tipo di approccio adduce a una distruzione del nostro sistema territoriale che si trova a essere piegato a regole di controllo autarchico. La controllabilità di ogni aspetto della nostra vita e il desiderio di dare ordine ai ritmi della routine, sono aspetti che hanno influenza anche sulla mente creativa dell’artista contemporaneo. Da qui discende che l’arte è da considerarsi come una forma di sinestesia, in cui si intrecciano, sino a inglobarsi, rapporti imprevedibili e casuali. Così queste combinazioni di memorie ed emozioni, innervate da interiori dinamismi, trovano sviluppo negli spazi che viviamo ogni giorno.
Da questi presupposti scaturisce spontanea la domanda: cosa è uno spazio vissuto, è possibile definirlo come un territorio? Il sociologo Erving Goffman ci stimola ad avere una visione aperta verso questo concetto, che è da considerarsi come una manifestazione del comportamento umano, o meglio, una ambientazione al comportamento[1]. In questo modo si sviluppa uno stringente legame tra l’ambiente, lo spazio e il relativo atteggiamento antropico, che ci porta a considerare il territorio, volendo sempre utilizzare le parole di Goffman, come “un qualsiasi spazio che sia limitato da ostacoli alla percezione”[2]. La prospettiva appena descritta è applicabile al nuovo format espositivo proposto dal gruppo artistico OFF1C1NA, chiamato /pos•tàc•cio/ – a cura di Spazio Y -, che prevede la creazione di interventi site specific nella zona esterna a dove si insedia il collettivo. Ogni artista, per prendere parte all’iniziativa creativa, deve fare proprie talune regole: l’intervento deve essere realizzato in cinque giorni per poi rimanere fruibile al pubblico per i dieci giorni successivi, per i lavori si dovranno utilizzare materiali trovati in situ, parimenti ad altri oggetti residui lasciati dal virtuosista che lo ha preceduto. Tutto ciò a voler dimostrare come agendo a priori, con un pensiero in espansione, si può ideare un progetto espositivo anche in uno spazio diverso da un museo, fondazione o galleria d’arte. Non c’è da stupirsi se attualmente fattività del genere stiano ridisegnando il profilo del sistema dell’arte contemporanea, sì da farlo mutare anche grazie a iniziative energiche gestite direttamente da artisti, che nella città di Roma, proprio nel periodo successivo a marzo 2021, si vanno via via censendo, se non altro per la grande vitalità che le caratterizza.
/pos•tàc•cio/ è un luogo astruso, nel senso che si presenta come una amalgama surreale di spoglie del momento: il territorio non è presente sulle mappe della città, perché si nasconde nel tessuto urbano come uno scrigno temporale, tale da essere uno spazio insospettabile per l’ignaro passante che può accedervi da un semplice cancello in ferro, che non lascia presagire la straordinarietà del luogo. Tra gli oggetti esposti nello spazio oblungo, di circa cento metri quadrati, si scorgono arnesi utili alla fantasmagoria creativa del collettivo di artisti composto da Paolo Assenza, Raniero Berardinelli, Fabrizio Cicero, Toni Franz, Ilaria Goglia, Katia Pugach e Germano Serafini. In pratica la storia di questo luogo è contenuta nel suo nome, che può ben gettare nel panico gli appassionati di toponomastica, considerando la sua alterazione lessicale e il suo suffisso peggiorativo, che in realtà denota un sito dove l’unica regola che regna sovrana è il principio di layering. Questa terra di mezzo che raccoglie storie, se non proprio antiche, comunque relativamente datate, porta traccia del momento del confronto e dello scambio appassionati, poiché sono stati diversi coloro che passando da lì hanno lasciato oggetti che ora si trovano raccolti nel cortile. È proprio Paolo Assenza (1974, Roma) a notare come questo inusuale format è da considerarsi come una buona soluzione per sabotare i classici e desueti metodi espositivi, affermando come nel progetto “non esista nulla che assomigli a un classico spazio espositivo. Per l’artista è una sfida riuscire a dominare uno spazio indeterminabile, al vaglio c’è l’atto dello spostamento e della casualità che il creativo deve saper controllare in una situazione di bilico soggettivo”.
Il primo artista chiamato a ideare un progetto site specific è stato Gian Maria Marcaccini (1970, Camerino), il quale ha ideato una grammatica non strumentale e legata inestricabilmente allo spazio (l’installazione sarà fruibile fino al 27 giugno 2021). La base dell’intervento è un bizzarro dialogo tra il conturbante luogo e tutti gli oggetti che vi si trovano, inoltre l’installazione muta in continuità, lasciando la conformazione finale in stato di divenire. Il risultato che ne è scaturito è incentrato su due opere, contraddistinte da un’articolazione spaziale e una forza espressiva cromatica e scultorea. Sulla parete oblunga è stato organizzato un allestimento composto da scheletri animali – di cui alcuni reperiti in loco – che si trovano in equilibrio precario su dei neon. Le ossature sembrano appartenere a dei mostri primordiali, tali da apparire come creature inquietanti di un tempo lontano, ora riproposti come dei relitti che acquistano nuova vita, ribellandosi a un progresso e a una società che li vuole desueti, superati e privi di senso. Scheletri che si vivificano con i trapassi dei neon, ma anche con i tessuti di canapa che assurgono a pulsioni materico cromatiche corrosive, rutilanti ossute iconografie tali da porsi come in un ricercato gioco di energetiche sinestesie che scandiscono ritmicamente lo spazio del luogo.
Queste forme installative consentono di ideare ed evocare paesaggi metafisici e surreali, portandoci lontano dai luoghi di fisicità territoriali, giacché visitando l’installazione di Marcaccini sembra di vivere in un luogo desertico. Non sembri assurda questa congettura, ma pare di non essere nella Roma del Quadraro, bensì nella cittadina americana di Marfa, la località del deserto american Texas nota per essere ideale luogo di incontro di menti creative. Ed ecco che al /pos•tàc•cio/ sembra proprio di vivere una scenografia desunta da un rituale magico, come ci suggerisce il testo critico di Ilaria Goglia che individua nell’itinerario espositivo una sorta di percorso iniziatico “costellato da feticci enigmatici”. Il carattere rituale che cifra il montaggio ritorna anche nell’intero format, presentandosi secondo una cadenza temporale definita da regole ben precise, ripetendosi ciclicamente come fosse un rito. In questo modo le opere di Marcaccini, alla pari di quelle degli artisti che vi succederanno, si caratterizzano per un unicum: l’edonismo verso il luogo e l’attrazione fatale del suo inconsueto ecosistema. Elementi questi capaci di liberare lo spirito creativo dell’artista, volto a creare un immaginario in grado di rinnovarsi periodicamente, per svelare la natura magnetica ed ipnotica del luogo.
Se nell’installazione in cui si possono osservare ossa animali v’è una ricerca spasmodica verso l’equilibrio delle forme pausate e la loro dialettica scultorea e luministica, la successiva opera video è composta da uno scheletro plastico costruito con materiali di recupero da una struttura lì reperita. In tal guisa l’artista esegue un passaggio dalla tridimensionalità alla quarta dimensione, facendo riferimento proprio agli strumenti tecnologici con cui è prodotto il video, dimodoché l’opera diventa una soluzione morfologica inedita per rappresentare una realtà virtuale. Il video parla al pubblico secondo un linguaggio elettromorfo: l’artista ha, infatti, disegnato, con delle pennellate virtuali volutamente spesse, corpose e carnali, il suo volto che prende vita con il movimento dei muscoli, contemporaneamente nella parte inferiore compaiono delle scritte didascaliche che ci stimolano a riflettere sul valore dell’esistenza umana e della sua volatilità. La combinazione induce a una conversazione mentale tra l’alias dell’artista e lo spettatore, per volerci ricordare che l’arte è capace di oltrepassare ogni barriera grazie al suo incommensurabile potere comunicativo. Tutto non è come appare, poiché nel video sono gli occhi a tradire la natura soggettiva dell’artista, che pare essere ben riconoscibile dalla crocchia di capelli che hanno sempre caratterizzato il suo aspetto e dalla enfatizzazione della forma delle orecchie, con cui sembra voglia orientarsi nel mondo. Così, se la fisiognomica dimostra che abbiamo a che fare con un suo autoritratto, rimaniamo comunque interdetti dall’assenza delle pupille negli occhi, che ci guardano, ma purtroppo non ci vedono. Marcaccini vuol porci, in altri termini, una questione che va ben oltre la disputa sull’esistenza umana, sfiorandone la creatività e i suoi limiti, per l’artista è sufficiente un video, prodotto con l’ausilio di strumenti tecnologici, per rendere cognitiva la possibilità di comunicare l’unicità e la vulnerabilità dell’uomo, in cui l’alias è inteso come emanazione delle sue emozioni che si presentano soggettivamente, senza alcun filtro censorio.
In entrambi gli interventi site specific, Marcaccini dimostra di saper abilmente gestire un linguaggio in cui tutte le forme sono caratterizzate da intrecci di calibrate ispirazioni, tratte da fenomeni vitali e naturali che mantengono un rapporto congenito con l’ambiente. In questi sviluppi creativi egli esegue un processo etereo, ovvero fa esalare dalla materia scultorea una tensione energetica di sinestesie creative, invitando lo spettatore a prendere parte a una fantastica danza dove ciò che unicamente conta è quel che si sente.
Info:
[1] Erving Goffman, La vita quotidiana a come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 127
[2] Ibidem
Per tutte le immagini: /pos•tàc•cio/ #1 Gianmaria Marcaccini, a cura di Spazio Y, presso OFF1C1NA, Roma, Ph. Credit Germano Serafini, courtesy Off1c1na, Roma
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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