De’ Foscherari rende omaggio a Gilberto Zorio con una personale che ripercorre cinquant’anni di collaborazione tra il Maestro dell’Arte Povera e la galleria. La mostra è concepita come un organismo vivente in cui opere realizzate in periodi diversi dialogano tra loro richiamandosi e implementandosi l’un l’altra. Oltrepassando i confini della retrospettiva, i lavori fungono da catalizzatori di riflessioni sulle potenzialità evocative della prassi artistica e sul mistero di un Universo costantemente rimodellato da energie psichiche e organiche. Il percorso espositivo evidenzia la fascinazione di Zorio, rintracciabile fin dalle prime opere, per i processi fisici, chimici e alchemici e per i contrasti, le modificazioni, aggregazioni e tensioni della materia che dischiudono infinite nuove possibilità esistenziali e poetiche.
Ricorrono alcuni elementi costanti del suo linguaggio come la canoa, gli alambicchi, i giavellotti, le pelli di animale e le stelle di David che nelle intenzioni dell’autore assumono il valore di forme archetipiche quali unità di misura umane dell’incommensurabile. Il vocabolario espressivo di Zorio scaturisce dall’intenzione di manipolare e plasmare l’energia allo stato puro e dalla conseguente necessità di predisporre contenitori e conduttori adatti a trattenerla e concentrarla per poi liberarla al momento opportuno. Emblematica in questo senso la ripetuta esibizione di una pelle di vacca squadernata associata a resistenze elettriche incandescenti o al motivo della stella: se la pelle esibisce, implica e protegge la vitalità biologica dell’animale a cui è stata sottratta, la sua linfa vitale sembra trovare concretezza negli elementi aggiunti, ai quali metaforicamente fornisce energia. L’apparente informalità materica della pelle conciata contrasta inoltre con la sua intrinseca vocazione a resistere per preservare le interiora dall’esplosione che la pressione atmosferica altrimenti provocherebbe, richiamando a questo modo per analogia l’essenza della prassi scultorea intesa come atto che determina una forma.
L’opera più datata presente in mostra è “Letto” (1966) in cui un’impalcatura essenziale sorregge una rete formata da strisce di gomma da copertone incrociate parzialmente nascoste da un lenzuolo metallico che conserva l’impronta dell’intreccio sottostante. Se qualche reminescenza pop si avverte ancora nel titolo e nel gigantismo oggettuale, il ricorso a materiali umili e antiartistici e la tensione creata dall’ambigua percezione di peso, durezza e inclinazione dei suoi elementi inscrivono a pieno titolo la scultura nell’Arte Povera che sarebbe stata ufficialmente coniata da Germano Celant l’anno successivo. L’imponenza di questa struttura dialoga con la diafana leggerezza di “Per purificare le parole” (1980), composizione di tre giavellotti collegati ad un’ampolla in pyrex contenente alcool e fosforo. Se per Zorio “ogni uomo è un recipiente di minerali e di acqua e le sue vene, polmoni e organi sono uno straordinario laboratorio chimico fatto di tubi e alambicchi”, il piccolo recipiente dal collo sottile e dal corpo globiforme ricorda la forma dello stomaco umano e lo spirito che contiene ha quindi la funzione metaforica di liberare da impurità e menzogna le parole pronunciate attraverso il boccaglio in una poetica verifica del motto “in vino veritas”.
Ancora lance e compassi che sorreggono provette compongono “Stella calibrata” (2016): in questo caso gli alambicchi che alludono alla trasformazione alchemica riceveranno energia potenziale dal giavellotto, simbolo del desiderio e del superamento del limite, e dal complementare strumento di misurazione che ne orienterà la direzione. Se il compasso è la misura e la razionalità di una cultura che vorrebbe guardare all’infinito ma non riesce a uscire da un microcosmo, la stella è l’immagine energetica per antonomasia, nelle sue cuspidi si concentra la massima potenza della flusso elettromagnetico che l’attraversa, è un’emittente che tenta di comunicare con l’Universo e la proiezione del cosmo che l’uomo sogna di esplorare.
Per Zorio i materiali non sono simboli ma pura forza, così la “Canoa aggettante” (2016) è sollevata e rifiuta l’ultimo approdo nonostante la falla che ne squarcia il ventre, si slancia verso il futuro e innalza l’ampolla in cui ribolle un liquido fosforoso; una pompa immette aria nell’ampolla fornendo ossigeno al fosforo e caricandolo di una luminescenza che al buio diventerà memoria delle visioni che durante il giorno appaiono lampanti. Il passaggio di energia è il fulcro anche de il “Marrano con treccia” (2016), un otre di pelle di maiale che quando viene riempita d’aria si gonfia, sibila, si contorce e ruota su se stesso aggrappandosi ad una treccia di rame, conduttore metallico per eccellenza. Los marranos, i porci, era il termine dispregiativo altezzosamente rivolto dagli spagnoli del XV secolo agli ebrei e ai mori che si dichiaravano cattolici per non essere uccisi: ai suoi Marrani Zorio offre la possibilità di ribellarsi gonfiandosi e sollevandosi per respirare liberamente invertendo e riparando il corso della Storia. L’arte è quindi intesa come processo che mette a nudo i propri elementi e procedimenti per sostituire alla rappresentazione di un contenuto o di una forma l’energia pura intesa come possibilità operativa di riempire un vuoto, di vuotare un pieno, di pianificare passato, presente e futuro e di galvanizzare l’inerzia per reinserirla nel ciclo della vita. Per questo l’artista non è creatore ma demiurgo, movimenta e fa collidere la materia affinché il mondo accada e le trasformazioni che innesca sfuggono al controllo razionale per convergere in un’esplosione magica, alchemica e artistica.
I rapporti visivi e angolari tra le opere fin qui prese in considerazione sono rinsaldati da un sottofondo sonoro di sibili, vibrazioni e impercettibili mutamenti acustici che preannunciano il loro periodico animarsi con fragorosi rumori, sobbollimenti e getti d’aria sincronizzati culminanti nell’improvviso piombare del buio che immerge il visitatore in un’insospettata nebulosa fluorescente. Solo a questo punto infatti ci si accorge che le stelle ingigantite fatte con i compassi e le lance sono parte di un lattiginoso universo luminescente che disorienta e crea nuovi impensabili collegamenti con quelli che a prima vista sembravano congegni a sé stanti. È il trionfo della memoria e del sogno che quando il giorno tace riescono ad acquietare il lavorìo della mente umana assecondando dolcemente il naufragio delle infrastrutture logiche a cui la coscienza si appiglia per immaginare l’infinito.
Gilberto Zorio. Le opere fluidificano e oscillano da un secolo al successivo.
16 dicembre 2016 – 16 marzo 2017
Galleria de’ Foscherari
Via Castiglione 2B Bologna
Gilberto Zorio, Stella calibrata, 2016. Cinque calibri da scultore, tondino filettato, alambicco di pyrex, solfato di rame, fosforo rosso, crogiolo di bronzo, pinza, cm 214 x 226 x 156. Courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. Ph: Paolo Panzera
Gilberto Zorio, Marrano con treccia, 2016. Treccia di rame, marrano, acciaio, compressore, sibilo, fosforo, temporizzatore, cm 522×300 (diametro rotazione). Courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. Ph: Paolo Panzera
Gilberto Zorio, Marrano con treccia, 2016. Treccia di rame, marrano, acciaio, compressore, sibilo, fosforo, temporizzatore, cm 522×300 (diametro rotazione). Courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. Ph: Paolo Panzera
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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