Sono insoliti gli interventi espositivi generati dall’affascinante confronto con lo studio, nondimeno sempre distinti da una profondità d’analisi, sì da brillare nella memoria per stimolare il desiderio d’indagine. Tali inaspettate iniziative si pongono lontano dagli edonismi attuali, distaccandosi dalla tentazione di inseguire le volatili tendenze della popolarità del momento.
Su questo fulgido alone di ricerca si pone il progetto che Isabella Vitale propone per il proprio spazio espositivo, dedicato al fotografo Gilles Raynaldy (Parigi, 1968), dimostrando ancora una volta quanto il riservato momento d’analisi sia il suo usuale campo affettivo. La mostra, curata da Alessandro Dandini de Sylva, intitolata Nouveau venu, qui cherches Rome en Rome, in programmazione fino al 30 maggio 2023, è una interessante esposizione che scopre l’importanza del lavoro d’archivio, schiudendo, al contempo, una narrazione fotografica all’aperto, donando così inconsuete vedute originate da un dialogo con la città di Roma.
A testimonianza di un indipendente pensiero interpretativo, cifra identitaria delle esposizioni curate da Dandini de Sylva, si rimane sorpresi dalla scelta allestitiva volutamente anti-espositiva, giacché fortemente epurata e priva di fotografie esposte su muro. Il curatore, coerentemente a tale scelta, fa sì che la mostra diventi un invito allo studio, con il peculiare posizionamento di una selezione di provini su candide buste consultabili con apposite lenti di ingrandimento, il tutto ben sistemato su un tavolo d’osservazione. In questo modo sono le opere stesse a invitarci a non rimanere passivi, conducendoci a scoprire mete ignote e incoraggiando la conoscenza di nuove corrispondenze attraverso la metodologia d’archivio.
Nonostante le esigue dimensioni, gli scatti risultano tutti caratterizzati da una certa ariosità e pienezza di luce, dimodoché Roma perde i consueti confini geografici per porsi come un territorio di scoperta, secondo cui guardare non è mai immaginare, bensì fissare un certificato della presenza[1] del fotografo in un determinato luogo. Così, per Raynaldy la fotografia acquisisce la persistenza di una sensazione visiva, tradotta secondo un’acuta ed equilibrata sensibilità tra chiarore, colore e punti di fuga che inaspettatamente comunicano quanto la sua attenzione cada verso un qualsiasi[2] scorcio cittadino. Da intendere quest’ultimo come punto di osservazione, un positivo suggerimento con cui percepire il paesaggio in maniera differente, focalizzando l’attenzione sulla di misura dello spazio ritratto.
La visione di Raynaldy è generata da un pensiero volutamente anti-trionfalistico, mite e timido, proprio quanto il temperamento dell’artista. Il soggetto paesaggistico viene trattato in maniera delicata, velatamente malinconica, unitamente alla particolare inclinazione a scovare vedute di una città isolata, a tratti deserta e irriconoscibile, come nel caso del Parco nei pressi del fiume Aniene, esaltato dai candidi riflessi in bianco e nero. Questa procedura tratteggia una linea di ricerca che coniuga una salda padronanza dell’apparecchio fotografico a un afflato spiccatamente classico; l’immagine, infatti, viene fissata con la camera oscura, un banco ottico tale da impressionare lastre di dieci per dodici centimetri che non permette alcun lavoro di postproduzione, considerato come sia assente la versione digitale. Siffatti tempi di creazione sono davvero distesi, vuoi per gli spostamenti del fotografo da Porta Maggiore verso la zona est della città – che avvengono in bicicletta – vuoi per il momento di incontro cognitivo con il luogo in quanto messo a nudo da Raynaldy. Da questo processo emergono dei luoghi suadenti, di norma sporadicamente “non visti” la cui luce nitida svela una tendenza fotografica oggettiva che trasuda un caro sentimento, seppur mai documentale, solidamente appoggiato a una struttura prospettica con un punto di fuga centrale o laterale.
È oltretutto evidente che l’attenzione di Raynaldy è protesa a favore della posa di luoghi in cui i tagli visivi alcune volte si rivelano, mentre altre rimangono quasi volutamente celati poiché privi di riferimenti assoluti. In tali contesti il silenzio avvolge le vedute prescelte, dando spazio immaginativo verso l’inafferrabile, che diviene una sua cifra stilistica caratterizzata da una pacata anima sovvertitrice. Inoltre, i provini in mostra risultano rilevanti non solo per i rapporti tonali, ma anche per le pulsioni che generano, volte ad acuire l’attenzione verso qualcosa di specifico che lo spettatore è libero di identificare, poiché l’occhio durante la lettura dell’immagine vaga alla ricerca di saldi riferimenti nel paesaggio. In questo modo le opere risultano un compendio di rapporti in cui i punti d’attrazione si lasciano distinguere, un tutt’uno con il realismo fotografico.
È evidente che quanto in rassegna si presenti sotto la forma di coordinate geografiche che invitano non solo a interpretare, come detto, ma anche a inseguire i passi di Raynaldy, gettando un ponte verso l’esperienza concreta di un paesaggio lontano dalla spettacolarità contemporanea. In effetti, il fotografo riesce sempre a fissare con le proprie letture la natura selvaggia e soffusamente urbana donando solo gli indizi di un labirinto cittadino in cui la città è interrogata non per il piacere edonistico e descrittivo bensì per coglierne la traccia più precisa che riguarda piuttosto la sua percezione.
Tutto ciò viene restituito con il sentimento del luogo, tramite gli oggetti fisici, le luci, sino alla sporadicità dei passanti, caratteristiche che comunicano l’essenza degli spazi urbani. E in questa fantastica apertura di visione, come condizione operativa e di ricerca, si coniugano la fotografia di Raynaldy e le scelte espositive proposte da pianobi, consci che il mondo è tanto complesso sì da invitarci a studiarlo: il fotografo, a tale scopo, esegue il gesto tattile dei polpastrelli sul pulsante dello scatto, come se il macchinario diventasse un prolungamento del proprio corpo; diversamente Isabella Vitale rende omaggio a tali forme artistiche con la rara capacità di attirarci allo studio, trasmettendo un singolare senso di amore e quiete partecipativa.
[1] Roland Barthes, La camera chiara, Nota sulla fotografia, (1980), Piccola Biblioteca Einaudi, 2016, p. 87
[2] Gianni Celati, Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, Quodlibet Storie, Letteratura, Lezioni e conversazioni, 2022, p. 563. Circa il termine “qualisiasità” si veda l’analisi di Cesare Zavattini, secondo cui l’attenzione del fotografo cadendo su territori ed aspetti ordinari, fa emergere una propria lettura straordinariamente realistica ma anche personale.
Info:
Gilles Raynaldy Nouveau venu, qui cherches Rome en Rome
a cura di Alessandro Dandini de Sylva in collaborazione con Isabella Vitale
26/3 2023 – 30/5/2023
pianobi, Via dei Ciceri 97/99, Roma
www.pianobi.info
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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